Alla fine il governo moroso ha dovuto pagare i buffi: dopo gli ultimatum americani, la ministra della Difesa Trenta ha dovuto sbloccare il pagamento di 389 milioni per gli aerei F35, su cui finora aveva fischiettato.
Dopo un vertice con il premier Conte, è stato emesso un comunicato un filo umiliante per il paese: «Sono state già trasferite negli Stati Uniti le somme dovute per le commesse completate e nei prossimi giorni verranno concretamente effettuati i pagamenti».
Ma quello dei cacciabombardieri è l'ennesimo dossier che spacca la maggioranza e su cui l'esecutivo Conte fa dieci parti in commedia, senza riuscire a prendere decisioni se non con la pistola alla tempia. Gli F35 sono un antico baubau per i Cinque Stelle, secondo il noto esperto di difesa areonautica Di Maio sono «inutili» e il suo partito aveva giurato e spergiurato che, arrivati al potere, avrebbero cancellato le commesse e rispedito gli aerei in Usa. Per salvare la faccia al loro partito di riferimento, Conte e Trenta hanno quindi aggiunto una postilla al «pagherò», scrivendo che sulle prossime commesse si attuerà una «ricognizione delle effettive esigenze», immediatamente tradotta dai grillini come una «revisione profonda degli accordi».
Dal Carroccio allora parte l'altolà: il programma F35 va mantenuto così com'è. Matteo Salvini, che ha scoperto le questioni Cina e F35 solo dopo il viaggio a Washington del leghista Giorgetti e le sfuriate dell'Amministrazione Usa, coglie la palla al balzo per lanciare il suo avvertimento: «Ogni ipotesi di rallentamento e ravvedimento sarebbe un danno per l'economia italiana». Da Palazzo Chigi, dove come al solito non sanno che pesci prendere, si fa sapere che «il dossier è ora nelle mani di Conte», che quindi tenterà di rinviare anche questa ennesima scelta a improbabili tempi più propizi. Le opposizioni incalzano, ricordando all'esecutivo che ci sono patti da mantenere: «Tra dubbi sugli F35, isolamento in Ue, memorandum con la Cina e annunci confusi di ritiro dall'Afghanistan, il governo sta mettendo a rischio la sicurezza nazionale», denuncia da Fi Elvira Savino.
Ma l'aria nei palazzi del governo è sempre più tesa. Ad una settimana dallo sbarco di Xi Jinping in Italia, le posizioni restano lontanissime, e Conte - che martedì prossimo dovrà riferire in Parlamento - ancora non sa cosa potrà dire. Salvini assicura che «se ci sarà anche un solo dubbio per la sicurezza degli italiani, dal Viminale ci sarà un secco no» alla firma del memorandum. E spiega che, se «aprire nuovi mercati» è cosa buona e giusta, non si possono «permettere penetrazioni che possano manipolare le politiche economiche» dell'Italia. Quella con la Cina «non è una competizione ad armi pari», dice. Allineandosi così perfettamente alle parole d'ordine di Usa e Unione Europea. Invece Di Maio, fan della Cina, fa lo gnorri, si dice contento del «totale accordo nel governo», arruola sotto le proprie bandiere anche il capo dello Stato, che secondo lui «ha dato l'assenso» al memorandum, e assicura che il suo ministero «firmerà l'accordo». A sette giorni da una possibile svolta epocale di alleanze, la linea del governo non potrebbe essere più confusa e schizofrenica.
Tanto che c'è chi nel M5s sospetta che Salvini voglia usare il caso Cina per far saltare il governo, ritagliandosi un ruolo di paladino atlantico ed filo-Ue che ripulirebbe la sua opaca immagine e lo renderebbe potabile per Palazzo Chigi.
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