Da una parte l'imbolsito e imbalsamato Nicolas Maduro, fantoccio dei generali arricchitisi con il traffico di narcotici e petrolio e, per questo, pronti a tutto pur di non mollare il potere. Dall'altra un leader per caso come il 35enne Juan Guaido promosso a «conductador» senza averne né il carisma, né il «phisique du role». Dietro lo stallo di un Venezuela sfinito, ma prigioniero di un duello senza vincitori s'allunga ora l'ombra di uno scontro tra Mosca e Washington capace di riportare l'emisfero latino americano ai tempi della guerra fredda. Non a caso il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov e il suo omologo statunitense Mike Pompeo, reduci da una tempestosa telefonata, han concordato d'incontrarsi la prossima settimana per smorzare la tensione.
Eppure nonostante l'escalation è difficile scorgere all'orizzonte qualcosa di simile alla crisi dei missili dell'ottobre 1962. Allora ai due capi del telefono rosso si muovevano Nikita Krushev e e John Kennedy. Oggi sia Vladimir Putin, sia Donald Trump sembrano restii a metterci la faccia e lasciano ai vari Lavrov, Pompeo e John Bolton la gestione della crisi. A renderli guardinghi contribuiscono due fattori. Il primo è la scarsa fiducia nei contendenti a cui hanno delegato l'ennesima guerra per procura. Putin non scommetterebbe mezzo rublo su Maduro. L'inquilino della Casa Bianca considera Guaidò un dilettante allo sbaraglio. Per questo entrambi si guardano bene dal portare lo scontro alle estreme conseguenze. Trump sempre più propenso a risolvere le questioni affidandosi non ai missili, ma alla potenza economica sembra restio a concedere piena fiducia all'aggressivo consigliere per la sicurezza John Bolton. E a renderlo ancor più riluttante contribuisce il passo falso del 30 aprile quando, nonostante le assicurazioni di Bolton, nessun ministro venezuelano ha defezionato e i generali son rimasti con Maduro.
Sul fronte opposto Putin non sembra disposto a giocarsi la faccia in un conflitto impossibile da combattere. In Siria poteva contare su una relativa vicinanza e su una base navale ereditata dai sovietici. Per intervenire in Venezuela dovrebbe muovere aerei, navi e soldati a decine di migliaia di chilometri di distanza. Il tutto per difendere interessi che fanno capo alla società petrolifera Rosneft guidata dall'ex vice-premier Igor Sechin. Rosneft è, infatti, la principale intestataria dei crediti miliardari concessi al Venezuela e ripagati con importanti partite di petrolio. Proprio per questo Trump ritiene che la vera chiave di volta non siano i missili, ma il portafoglio.
In fondo di fronte alla prospettiva di uno scontro che, come successo in Siria, cristallizzerebbe la presenza russa nell'emisfero americano molto meglio cercare un accordo.
Magari garantendo a Mosca le partite di petrolio venezuelano indispensabili per saldare i suoi crediti ottenendo così quel cambio di regime che l'imbelle Guaidò e le mosse errate di Bolton non sono riusciti, fin qui, ad assicurare.
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