Politica

Collaborazione sì, Nazareno no

Che questo sia il momento della responsabilità in una fase così drammatica della vita del Paese non ci sono dubbi. Anche chi non vuole tradurla nelle forme della politica, a cominciare da Matteo Salvini, non lo nega.

Collaborazione sì, Nazareno no

Che questo sia il momento della responsabilità in una fase così drammatica della vita del Paese non ci sono dubbi. Anche chi non vuole tradurla nelle forme della politica, a cominciare da Matteo Salvini, non lo nega. Non fosse altro perché di fronte ad un precipitare della situazione dovrebbe risponderne di fronte all'opinione pubblica: i sondaggi, per quel che valgono, segnalano che al venir meno della fiducia verso governo e maggioranza non corrisponde un aumento di fiducia verso l'opposizione, semmai un aumento della sfiducia nei confronti dell'intera classe politica. La linea della responsabilità, però, mai come oggi per essere convincente, deve essere alta nel sentimento, chiara nei propositi e nelle forme, aperta sulle conseguenze, solare cioè trasparente negli intenti, perché figlia diretta dell'emergenza che ha colpito il Paese. L'esatto contrario delle ombre che avvolgono ogni «inciucio».

Insomma, tornando indietro nel tempo e nel rispetto dei numeri della tragedia, bisognerebbe rifarsi ai governi unitari dell'immediato dopoguerra, ai governi di solidarietà contro il terrorismo della fine degli anni '70, meno ad esperienze più recenti di governi di larga coalizione come il governo Monti, il governo di Enrico Letta o il cosiddetto Patto del Nazareno, inficiati per certi aspetti da una dose eccessiva di speculazioni e contraddizioni pagate a caro prezzo da alcuni dei protagonisti: il governo Monti nacque da un siluramento premeditato dell'ultimo esecutivo Berlusconi e diede vita ad una serie di riforme che ancora oggi non hanno padre; il governo Letta ebbe come epilogo l'espulsione dal consesso politico del Cav, che pure ne fu uno degli artefici; il Patto del Nazareno, nato per avviare la stagione delle riforme, fallì sulla principale (quella istituzionale), Berlusconi come si ricorderà non fu coinvolto nella scelta del nuovo capo dello Stato, e quell'esperienza politica, se si ha un minimo di onestà intellettuale, pose la basi del sorpasso elettorale della Lega su Forza Italia.

Ecco perché il «dialogo», di cui si parla in questi giorni, tra maggioranza e opposizione, o con una parte di essa, deve essere chiaro sulle cose da fare nell'interesse del Paese e, nel contempo, assicurare pari dignità a tutti i protagonisti: non ci possono essere figli di un Dio minore o infingimenti. Tantomeno reticenze da parte di qualcuno, a cominciare dal premier, che camuffino con una cascata di retorica un sostanziale immobilismo. Tante parole per non muovere nulla. Se questa è la prospettiva meglio non cominciare neppure a dialogare.

Se, invece, il desiderio di fronteggiare insieme l'emergenza è vero anche la «condivisione» (parola troppo usata ma poco applicata) deve essere «vera». La responsabilità, quindi, non deve essere solo di una parte, ma di tutti i protagonisti. Ecco perché il coinvolgimento nelle scelte di politica economica non può limitarsi al recepimento di due emendamenti, sia pure importanti. Né, tantomeno, la responsabilità di oggi può tramutarsi in una sorta di corresponsabilità sugli errori del passato. Per essere più chiari: l'attuale maggioranza può decidere che per opportunità non sia il caso che Forza Italia entri nel governo; come pure che lo stesso Berlusconi per una valutazione politica neghi come ha fatto finora un'ipotesi del genere. L'unica cosa che non è possibile, è che gli azzurri, per un malriposto senso di responsabilità, accettino di appoggiare quelli che hanno sbagliato finora, come se la «condivisione» sia un modo per mondare tutti i ministri delle responsabilità per i ritardi e le corbellerie che ha hanno caratterizzato finora l'azione del governo. Per dirla in breve: quale logica, e trasparenza, avrebbe un appoggio di questa parte dell'opposizione a ministri come l'Azzolina o Bonafede? Questo sì che sarebbe un inciucio. Chiedere, invece, di ridurre in quei dicasteri il gap di competenza senza rivendicare ruoli, sarebbe un atteggiamento, appunto, alto, chiaro, aperto e solare. Un atteggiamento sicuramente non da figli di un Dio minore.

Eppoi c'è un dato di fondo, probabilmente la questione principale. Una politica della responsabilità per avere successo, va rivendicata con forza, alzando il livello del pathos, innanzitutto dai due personaggi che ne sono stati i promotori, Zingaretti e Berlusconi. Insomma, per riuscire in sfide così difficili bisogna avere il fisico, pardon, una leadership adeguata. Non dico che bisogna raggiungere i picchi di De Gasperi o Togliatti oppure di Moro e di Berlinguer, ma come minimo bisogna essere convinti della propria mission. Sul Cavaliere è difficile avere dei dubbi, si è trovato mille volte nella sua vita in frangenti simili, dalla bicamerale con D'Alema ad oggi.

Zingaretti, invece, stenta ad esercitare fino in fondo l'influenza che nelle condizioni date potrebbe esercitare. Soprattutto, non comprende il motivo principale che ha fatto nascere questa esperienza di governo e che l'entrata in vigore della norma che riduce i parlamentari, per via del risultato referendario, ha addirittura amplificato: i 5stelle, o la stragrande dei loro parlamentari, sono pronti a qualsiasi compromesso pur di evitare le elezioni. In questa situazione Zingaretti avrebbe tutte le carte per esercitare una sorta di egemonia sul governo e un efficace opera di convincimento sul premier. E, invece, succede l'esatto contrario: la constatazione che un Paese in piena emergenza, con un numero di morti in percentuale alla popolazione superiore agli Stati Uniti, con una situazione economica drammatica, alle prese con il rischio che i fondi del Recovery Fund arrivino solo nel 2022, non abbia ancora richiesto il Mes per le bizze grilline, è la fotografia spietata di questi limiti. Come pure sul famoso emendamento Mediaset-Vivendi nascondersi dietro l'alibi che è stato presentato dal ministro grillino Patuanelli, invece, di rispondere a Salvini che un sovranista che si rispetti dovrebbe avere come priorità quella di difendere le aziende italiane, fa venire qualche dubbio sul fatto che Zingaretti sia consapevole del proprio ruolo.

Per imporre certe politiche ci vuole anche un pizzico di coraggio e una buona dose di risolutezza.

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