Il «Rommel» iraniano ha trovato il suo destino, che aveva annunciato da tempo: «Il martirio è quello che cerco fra valli, montagne e deserti». Qassem Soleimani, il più carismatico generale dei Pasdaran era il comandante della brigata Al Qods, «Gerusalemme», obiettivo finale degli ayatollah. Un reparto di élite di 15mila uomini specializzati in operazione all'estero, che Soleimani ha usato in maniera spregiudicata soprattutto in Iraq, Siria, Libano e Yemen per espandere l'influenza sciita.
Nato nel 1957 in una famiglia povera e contadina dell'Iran profondo e religioso, a soli 22 anni ha partecipato alla rivoluzione islamica dell'ayatollah Khomeini e subito dopo si è distinto sul fronte della lunga e sanguinosa guerra Iran-Iraq. Soprannominato «comandante ombra» per il suo carattere introverso e le scarse dichiarazioni pubbliche ha guidato negli ultimi 20 anni la brigata Al Qods. Basso di statura, barba e capelli argento ha sempre goduto della fama di invincibile e incorruttibile. La guida suprema, Alì Khamenei, era legato al generale non solo dal rapporto gerarchico, ma da una sincera amicizia. A tal punto che il grande ayatollah ha officiato il matrimonio della figlia di Soleimani. La vedova, irriducibile come il marito, ieri ha dichiarato: «Sei andato in cerca del martirio, che infine ti ha aperto le braccia. Questa bandiera non cadrà a terra, mio Generale». Gli americani lo avevano già individuato come minaccia durante l'invasione dell'Iraq del 2003, ma Soleimani ha iniziato a farsi conoscere agli occhi del mondo negli ultimi anni. In Libano ha appoggiato a spada tratta gli Hezbollah, il partito armato sciita. In Siria ha salvato dal tracollo il regime di Bashar Assad inviando migliaia di volontari a combattere contro i ribelli jihadisti sunniti. E sempre il Rommel iraniano ha convinto i russi a intervenire con i bombardamenti che hanno ribaltato le sorti della guerra. In Iraq è stato lo stratega della rivincita contro lo Stato islamico schierando le milizie sciite al fianco dell'esercito. Nello Yemen ha fornito ai ribelli sciiti i consiglieri e i missili lanciati contro l'Arabia Saudita. Nemico numero uno di Israele, ha schierato i suoi Pasdaran sul versante siriano di fronte alle alture del Golan e rifornito di armi i palestinesi di Hamas. Lo scorso anno aveva pubblicamente dichiarato: «Voglio spazzare via l'entità sionista», ovvero lo Stato ebraico. L'alto ufficiale iraniano amava spuntare in prima linea scattando selfie in mezzo ai seguaci. A Tikrit, città natale di Saddam Hussein, ha guidato la riscossa contro l'Isis senza disdegnare l'appoggio aereo americano. Soleimani ha comandato anche le operazioni per riconquistare Aleppo, la Milano siriana, che ha segnato il cambio di passo nel conflitto. In patria è diventato un mito a tal punto che si ipotizzava una sua candidatura alla presidenza dell'Iran. Non sono mancati contatti segreti con gli americani e messaggi di sfida al presidente americano Donald Trump: «Puoi iniziare una guerra, ma saremo noi a finirla».
Il suo grande successo strategico è la creazione, grazie alle milizie sciite, di un corridoio terrestre che per la prima volta collega l'Iran al Mediterraneo partendo dall'Iraq, attraverso la Siria e fino al Libano.
Per questo motivo il quotidiano britannico Times lo aveva inserito, 24 ore prima della sua fine, fra i personaggi più influenti del mondo nel 2020 definendolo il «Machiavelli del Medioriente». Il 31 dicembre la firma dei militanti sciiti, che con lo spray rosso hanno scritto all'ingresso dell'ambasciata americana a Baghdad devastato dall'assalto, «Soleimani è il nostro capo», è stata la sua condanna a morte.
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