L'ultimo, uscito il 9 agosto, recitava: «Mi aggrappo con fitte di dolore al tuo ricordo, colmo di malinconia». Il prossimo apparirà martedì, ma lo deve ancora scrivere. È dal 9 luglio 2000, da quando subì quello che definisce «il tracollo esistenziale», che Antonio Alberti, 88 anni a novembre, pubblica sul Giornale un necrologio per ricordare con parole alate la sua adorata consorte Gina. Non una volta l'anno: tutti i mesi. Il 9, giorno della morte. In totale le ha già dedicato 169 necrologi.
L'inconsolabile vedovo non ha nessuna intenzione di abbandonare la pietosa consuetudine. La spesa complessiva affrontata in questi 14 anni è stata pari a 27.572,04 euro e tiene conto di un annuncio funebre gratuito per ritardata pubblicazione. L'ultimo gli è costato 179,10 euro. Avvertenza: queste informazioni non provengono dalla Arcus, la nostra concessionaria di pubblicità che peraltro mai si sarebbe sognata di darmele, bensì dallo stesso committente; tutte annotate a mano con grafia minuta e poi riportate in un file Excel. Deformazione professionale: dal 1955 al 1982, anno in cui fu collocato a riposo, Alberti, autodidatta diplomatosi perito elettronico studiando la sera, è stato archivista del Comune di Cinisello Balsamo (Milano). Ed è proprio lì, fra le scartoffie polverose, che nel 1960 conobbe la neoassunta Gina De Luca, all'epoca venticinquenne, applicata di concetto della ragioneria. Lui coniugato dal 1955 e con un figlio, Massimo, di appena 3 anni; lei prossima alle nozze. «Il giorno prima del matrimonio venne a piangere in municipio e mi chiese: Devo sposarmi o no?. Non seppi risponderle. Tacqui».
Galeotto fu il tampone della carta assorbente: quello, di legno, che il fumino Antonio aveva scagliato qualche tempo prima contro la collega d'ufficio. «S'era messa a scartabellare un faldone sulla mia scrivania e io, che sono sempre stato un tipo molto ordinato, preso dalla collera le tirai addosso la prima cosa che mi capitò a tiro. Grazie al cielo, Gina evitò l'impatto». Tra i due era stato amore a prima vista, ancorché gravato dai sensi di colpa: «Sono sincero, non è che mi dispiacesse molto per mia moglie. Solo per mio figlio Massimo, che era troppo piccolo per capire. Oggi è uno dei quadri dell'Ibm». L'anno seguente la sposina ebbe dal marito un figlio, Enrico, e quindi, oltre a due coppie mal assortite in nome della legge, erano in ballo anche le vite di due bimbi. Eppure mai legame fu più solido di quello creatosi tra gli adulteri Antonio e Gina, destinato a durare per ben 40 anni.
Alberti, originario di Cagliari, da quasi tre lustri ha lasciato la Lombardia per vivere a Porto Cesareo, località turistica del Leccese affacciata sullo Jonio. Abita tutto solo, accudito da una cagnolina e da due gatti soriani, in una villetta che s'è disegnato nel 1972, situata all'ingresso del paese. «Il mare non m'interessa: a 6 anni stavo per annegare nella piscina Gambini di Milano». La moglie sorride da una foto posta sulla mensola della cucina, davanti alla scatola dello sfigmomanometro Kardell per misurare la pressione. Di fianco al ritratto ci sono le parole apparse nel necrologio uscito il 9 febbraio 2002: «Gina. È l'amor mio che in ogni sentimento vive e ti cerca in ogni bella cosa e ti cinge d'eterno abbracciamento. Antonio». Accanto, una rosa avvolta nel cellofan e una donna di cuori. «Perché la carta da poker? Ciumbia, ma è lei! La regina di queste stanze».
Pensava di farne la casa di vacanze per la vecchiaia. Invece dal 2000 è un luogo di dolore, l'avamposto più vicino - mezz'ora di auto - al cimitero di Novoli, il paese del Salento dove Gina era nata e dove a lui è parso giusto farla riposare per sempre. «Per la cremazione le ho fatto mettere il vestito da sposa che indossava nel 1978. Poi me la sono portata in Puglia da solo, in auto. Una cassettina sul sedile accanto al posto di guida. Il nostro ultimo viaggio. Ho già detto all'impresario delle pompe funebri che le mie ceneri dovrà metterle in un'anfora, altrimenti nel loculo non ci entro. Così starò per sempre insieme alla mia Gina». Rischia di arrivare in ritardo all'appuntamento: sua madre morì a 101 anni. Nel frattempo nella grande casa piena di vuoto fa tutto da solo. Cucina, lava, rassetta. «L'unica cosa che non ho imparato è stirare. Ma ho scoperto che basta appendere le camicie sull'ometto dentro il box doccia e le grinze spariscono».
Nella storia del più fedele dei fedifraghi, gli scrupoli morali non hanno avuto parte. Benché il buon Alberti si presti come redattore unico, compositore, impaginatore e persino finanziatore di Ecclesia, il mensile della parrocchia Beata Vergine Maria del Perpetuo Soccorso, non ha mai creduto nel sacramento del matrimonio. «Sono stato iscritto al Pci dal 1944. A celebrare le mie prime nozze, a Palazzo Marino, fu Giovanni Brambilla, consigliere comunista, che poi divenne segretario della Camera del lavoro di Milano. Invece con Gina mi sposai il 10 settembre 1978 nella Sala degli Specchi di Villa Ghirlanda, a Cinisello».
Un comunista che legge Il Giornale.
«Cominciai a farlo nel 1994. Da allora è l'unico quotidiano che leggo. Prima compravo soltanto L'Unità, anzi la domenica andavo pure a venderla porta a porta. Curavo il bollettino della sezione di Cinisello: donai la collezione a una delegazione del Pcus arrivata in visita da Mosca. Me ne andai dal Pci nel 1975, disgustato dai compagni, chiusi e settari».
Meglio tardi che mai.
«Eh, ma cosa crede? Li piantai per buttarmi con il Movimento studentesco guidato da Mario Capanna e Giuseppe Alberganti, ex segretario della federazione comunista milanese. Andavo a fare casino per le vie di Milano con gli studenti».
Congratulazioni. Spranghe o P38?
«La violenza mai! Approdai a Democrazia proletaria. Nel 1975 diedi le dimissioni anche da delegato sindacale della Cgil, assicurandomi che non proseguissero le ritenute. Dal 1994 ho chiuso con la politica. Voto per Silvio Berlusconi».
Redenzione completa.
«Mi piace perché sa il fatto suo e dice sempre quello che pensa. Ero entrato nel Pci quasi per un fattore genetico. Mio padre Francesco, capotreno in Sardegna, nel luglio 1932 fu trasferito dalla sera alla mattina a Milano perché s'era rifiutato di prendere la tessera del Partito nazionale fascista: lo declassarono a frenatore sui treni merci e tale rimase anche dopo l'avvento della Repubblica, fino alla pensione. Mia madre aveva partorito da appena 15 giorni l'ultimo dei quattro figli. Io avevo 6 anni».
Dove andaste ad abitare?
«In viale Zara, al numero 124».
Tutto si tiene: al 58 c'è la casa dov'è cresciuto Silvio Berlusconi.
«Quando ci arrivammo noi, di palazzi lì ce n'erano ben pochi. Solo campi e prati dove giocare liberi. Ricordo ancora le scorribande con gli amici nella villa degli spiriti, un'antica magione abbandonata di piazzale Istria. Oggi non c'è più».
Da quanto non torna a Milano?
«Dal 2006. Mi piacerebbe rivederla. Era bella la mia città».
Che cosa le manca di più?
«Mi manca Milano. Tutta».
Della sua prima moglie che mi dice?
«Non sta bene. Ha trascorso 40 anni in piedi, a contatto con i clienti, nel suo negozio. Quando l'ha venduto, s'è ritrovata da sola seduta in casa e il suo cervello è stato offuscato dal morbo di Alzheimer. Mi spiace molto, perché abbiamo sempre mantenuto ottimi rapporti».
Che cosa non ha funzionato fra voi?
«Il matrimonio fu un errore di gioventù. A dirla tutta, temevo di non riuscire a farmi una famiglia e agii d'impulso. Nel 1974 fummo la prima coppia di Cinisello a usufruire della legge sul divorzio».
Come scoccò la scintilla con Gina?
«Il 6 novembre 1960 ebbi una colica renale in ufficio e svenni. Fu lei a trovarmi riverso sul pavimento e a farmi ricoverare all'ospedale di Niguarda. Da quel momento mi è stata vicino per sempre».
Che cosa la colpì di più in lei?
«Era attraente, versatile, simpatica. Una bella bambina. Eh, caspita se era bella! La fine del mondo».
Per quanto tempo foste amanti clandestini?
«Meno di un anno. Dovevamo farci bastare i sedili della mia Fiat 850. Dopodiché tagliammo i rapporti con le rispettive famiglie e ci mettemmo insieme. Ci piaceva girare il mondo. Siamo stati dappertutto: dalla piazza Rossa di Mosca, quando ancora c'era Krusciov, al Muro del pianto di Gerusalemme».
È mancata presto, a soli 65 anni.
«Nel 1999, di ritorno da un viaggio in comitiva a Barcellona, sul pullman si appartò. Strano, perché era una chiacchierina. Le faceva male la testa. Venne sottoposta a una Tac all'Istituto San Raffaele di Milano. Il responso fu tragico: metastasi maligna diffusa nella parte sinistra del cranio, inoperabile. Ne avrà per sei mesi, mi dissero i medici. E così fu. Dopo la prima chemio, la portai via. Venimmo qui, a Porto Cesareo. M'illudevo che l'aria di mare potesse giovarle. Invece fui costretto a riportarla al Nord. Il viso s'era gonfiato, il tumore aveva intaccato la porzione del cervello che controlla il linguaggio. Non parlava ma era lucidissima. Mi prendeva la mano come per chiedermi aiuto. È morta in casa, alle 10.20. Ho udito solo un soffio esalare dalle labbra: il suo spirito che se ne andava. E subito è tornata la Gina di sempre, i lineamenti perfetti, la pelle distesa. Una bambola, osteria!».
A che cosa s'è aggrappato da allora?
«Non ti aggrappi a niente. Pensi a tutto quello che c'è stato e che avrebbe ancora potuto esserci. Non riesco a dirmi né ateo né credente. Vado per chiese, ma solo ad ammirare le opere d'arte».
Quanto ci mette a comporre il necrologio mensile?
«Un paio d'ore. Amo le poesie, quelle di Giovanni Pascoli in particolare. Se non le impari a memoria, non mangerai né a pranzo né a cena, mi diceva mia madre. E così, per fame... O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna. Poi Foscolo, Leopardi, Saba, Neruda, Borges, Dylan. M'illudo d'ispirarmi a loro, quando scrivo di Gina».
A chi serve questo ricordo pubblico, oltre che a pagare in parte il mio stipendio, se l'è chiesto?
«Serve a me. Mi piace leggerlo stampato e conservarlo. Dei lettori m'importa poco. Anche se ricevo con piacere molte attestazioni d'affetto. Per esempio, da Pisa mi scrive tutti i mesi una signora che si firma la Titti. Non so come abbia fatto a procurarsi il mio indirizzo. Mi parla dei suoi interessi, dei suoi acciacchi e del marito che la fa arrabbiare».
L'essere tanto attaccato alla seconda moglie, anziché alla prima, che cosa le fa pensare del matrimonio?
«Che è solo un contratto. Ciò che conta è restare insieme per tutta la vita».
Un contratto che lei non ha onorato.
«Ma alla seconda moglie sono sempre rimasto fedele».
Che differenza c'è fra sposarsi e convivere, come fanno tanti giovani?
«Regolarizzare la posizione è importante. Ci vanno di mezzo i figli. Mia nipote ha 22 anni, è stata qui in vacanza con un rumeno, un bravo ragazzo. Sono insieme. Fin che va, va. La logica è questa».
Il matrimonio dev'essere eterno?
«L'amore è eterno. Il matrimonio diventa provvisorio se due ammettono la possibilità di dividersi già all'atto di celebrarlo. Dovrebbero sposarsi solo coloro che credono nell'indissolubilità».
Gay compresi?
«Eh no, per piacere! La Dichiarazione universale dei diritti umani afferma che uomini e donne hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia. Non dice uomini e uomini oppure donne e donne».
In 40 anni i matrimoni sono calati del 51 per cento. Perché, secondo lei?
«Le donne si sono emancipate. Pensano più a lavorare che a sposarsi».
Se il 30 per cento dei matrimoni in media fallisce dopo 15 anni, per quale motivo la gente continua a sposarsi?
«Perché il 70 per cento dura».
Dove pensa che sia la sua Gina in questo momento?
«Per me è ancora qui che gira per casa. Nelle notti di luna piena, guarda da lassù dentro la cucina. Per questo tengo le imposte sempre spalancate».
Va spesso a trovare Gina in cimitero?
«Tutti i sabato mattina. Da qualche tempo non porto più i fiori freschi, perché li fregano. Preferisco cambiarle ogni due mesi quelli di plastica».
E ci parla insieme?
«Un dialogo muto, fatto di ti ricordi quando.... Spero di ritrovarla».
Questa è fede.
«Mi sa di sì, o qualcosa del genere».
Sogna la sua Gina di notte?
«Di rado. L'ultima volta l'ho vista in gita ai castelli della Loira. Sorrideva».
(718. Continua)
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