«Il vantaggio quasi unico dell'offensiva - insegnava Carl von Clausewitz - consiste nella sorpresa». Già questo fa capire perché Vladimir Putin non abbia alcuna intenzione d'invadere l'Ucraina. L'effetto sorpresa, indispensabile per il successo di un'invasione, si è dissolto fin da dicembre quando Washington ha diffuso le prime informazioni d'intelligence sulla concentrazione di truppe russe. E attaccare senza effetto sorpresa equivale, nonostante l'evidente superiorità tattica e strategica della Russia, a moltiplicare le perdite. E con esse i costi politici ed economici del conflitto. Un errore che un presidente formatosi nel Kgb mentre l'Urss era impantanata in Afghanistan non può ripetere. Soprattutto in un'Ucraina dove gli Usa hanno convogliato armamenti per oltre 2 miliardi e 600 milioni di euro. Armi come i razzi anticarro Javeline, capaci di neutralizzare i carri russi da oltre quattro chilometri di distanza, e i missili anti aerei Stinger di ultima generazione, triangolati attraverso i Paesi baltici. Gli stessi missili che nell'Afghanistan anni '80 decimarono l'aviazione sovietica e potrebbero, oggi, ridimensionare la superiorità aerea di Mosca. Anche perché, nei piani del Pentagono, quelle armi puntano a moltiplicare l'incisività delle unità ucraine addestrate a fronteggiare un'eventuale invasione con tattiche di resistenza insurrezionale. Tattiche capaci di moltiplicare le bare di ritorno a Mosca ed erodere il consenso di Putin (oggi superiore al 65%) soprattutto fra quei giovani che resterebbero, nonostante l'abolizione della leva, le principali vittime di una logorante guerra d'occupazione.
Ma ai costi umani e politici vanno aggiunti quelli causati dalle durissime sanzioni studiate da Washington per garantire l'isolamento economico della Russia. Sfidandole, Mosca rinuncerebbe a oltre un terzo della propria economia, visto che il 36.5% delle importazioni arriva dall'Ue, che garantisce il 37,9% delle esportazioni di Mosca. In quest'ottica, anche l'Ucraina rappresenta una piccola risorsa. Nel 2021 l'export verso Kiev è cresciuto del 28,8% superando i 7 miliardi. Le nuove forniture energetiche alla Cina, propiziate dagli abbracci olimpici con Xi Jinping, potrebbero mitigare il danno, ma difficilmente colmerebbero il disastro. Al buco nero delle sanzioni s'aggiungerebbero le spese per mantenere 44 milioni di ucraini ormai totalmente dipendenti da Mosca. Una prospettiva che minaccerebbe anche il consenso di quell'Ucraina russofona e orientale rimasta sempre fedele Mosca.
L'ipotesi invasione mal si coniuga anche con le linee politico-strategiche di uno Zar Vladimir sempre attentissimo a circoscrivere i precedenti interventi militari in un perimetro d'apparente legittimità internazionale. Nel 2014 l'occupazione della Crimea, e la sua annessione, vennero legittimate da un referendum. La discesa in campo in Siria venne preceduta da una richiesta d'aiuto di Bashar Assad. Quando si è trattato di superare le linee della legittimità internazionale, Putin è sempre ricorso a forme d'intervento più o meno mascherate affidate, come in Libia o nel Mali, ai «contractor» del gruppo Wagner, ufficialmente non legati al Cremlino. Non ha mai permesso che l'azione militare gli precludesse una posizione di centralità nella trattativa diplomatica internazionale. Un obbiettivo perseguito sia nel colloquio telefonico di ieri con Biden, sia nei vertici di questa crisi.
Una crisi che punta non alla conquista dell'Ucraina, ma al mantenimento di un ruolo d'assoluta centralità sulla scena internazionale da cui misurarsi con gli Usa e discutere, da potenza alla pari, gli equilibri strategici dell'Europa e i limiti all'influenza e all'espansione della Nato.
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