«Conservo per l'eternità ma non imbalsamo zie»

Ha preparato 20mila animali, compresi cavalli e asini per lo scultore Cattelan Il re dei tassidermisti s'è consumato i pollici: «Mi curo con cartilagini di squalo»

Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, è il caso di dirlo. A furia di scuoiare animali e di modellarne le fattezze per consegnarli all'eternità, Agostino Navone s'è ritrovato con le cartilagini articolari di entrambi i pollici totalmente consumate. «Un dolore atroce, era come prendere la scossa a ogni minimo movimento». Non gli è rimasto che sottoporsi a un doppio intervento nel reparto di chirurgia della mano del Cto di Torino: «Il primario Italo Pontini quella mattina era incazzato nero, per cui ho preferito che a operarmi fosse il dottor Armand Sard. Mica per altro: so bene che cosa significhi usare i coltelli in preda all'ira... I miei preferiti sono l'arburesa e il pattada, sardi, meglio ancora l'opinel francese». Alla fine la salvezza gli è venuta dai suoi amici morti: «Adesso mi curo mangiando per due mesi l'anno cartilagini di squalo. Sanno un po' di baccalà, ma pazienza».

Navone è uno dei 25 tassidermisti rimasti in Italia. Fra tutti, il più innovatore. Non solo perché ha rimpiazzato con poliuretano e vetroresina la paglia che molti suoi colleghi infilano nelle pance dopo averle svuotate dei visceri, ma anche perché ha messo la propria sapienza artigianale al servizio dell'arte. I suoi asini seduti e i suoi cavalli appesi al soffitto o con la testa infilata nel muro, firmati da Maurizio Cattelan, sono finiti al Moma, il Museum of modern art di New York. Solo che a «scolpirli» è stato lui, non il controverso performer padovano.

Scolpisci oggi, scolpisci domani, Navone ci ha preso gusto e ha persino ricreato, nelle cucine del Castello di Racconigi, il menu del sontuoso pranzo di gala che re Vittorio Emanuele III offrì il 24 ottobre 1909 a Nicola II, zar di tutte le Russie: pesce ragno con salsa veneziana, fagiani e quaglie arrosto, insalata alla Bariatinski, timballo alla Bragation. E poi tracine, trote, polli, conigli, faraone. Ma anche zucche, funghi, tartufi, cardi, cipolle, patate, frutta. Insomma, è diventato il primo imbalsamatore vegetale.

In oltre 40 anni di attività, Navone ha creato qualcosa come 20.000 animali naturalizzati, lui li chiama così. Nel suo antro a Riva presso Chieri (Torino), dove casa e bottega sono protetti da un muro di cemento in stile Fort Knox, trovi sempre un piccolo zoo inanimato a tenergli compagnia, in attesa d'essere spedito a musei, università e collezionisti privati di mezzo mondo. «Questo è un fisher, detto anche martora di Pennant, un mustelide che vive nelle foreste settentrionali dell'America e in Canada, manco sapevo che esistesse», fa da cicerone. Volpi e galli cedroni in quantità. La testa di un ippopotamo con le fauci spalancate. Teste di cervi e mufloni. Da pochi giorni ha immortalato un orso bruno che si porta alla bocca un favo per mangiarselo insieme con il miele contenuto nelle cellette.

C'è mancato poco che avesse a che fare anche con i cristiani. «Anni fa, mi telefonano dal Piemonte: “Avremmo una zia da far imbalsamare”. Rispondo che non se ne parla neppure. Nelle settimane successive le chiamate diventano insistenti. L'ultima richiesta - “potrebbe impagliarla con un braccio alzato?” - mi fa saltare i nervi e minaccio di rivolgermi ai carabinieri. Fino a che nell'ottobre 2013 non viene scoperto nel Cuneese il cadavere di Graziella Giraudo, detta “la santona di Borgo San Dalmazzo”, morta per cause naturali una quindicina d'anni prima. Era in uno sgabuzzino, seduta in poltrona, con la mano destra elevata nel gesto di benedire».

Non fatevi venire strane idee: Navone non assomiglia per niente ad Ambrose Chapel, l'inquietante imbalsamatore nella cui bottega londinese finisce per sbaglio il dottor Ben McKenna, alias James Stewart, sulle tracce del figlioletto rapito in L'uomo che sapeva troppo di Alfred Hitchcock. Al contrario, è un tipo ilare, che voleva diventare ingegnere meccanico. Era iscritto da due anni al Politecnico di Torino. Una mattina si presentò per dare l'esame di chimica ma trovò i cancelli sbarrati: postumi del Sessantotto. Girò i tacchi, andò al distretto militare, firmò per l'arruolamento volontario in qualsiasi corpo e si ritrovò pochi giorni dopo in fanteria a Messina. Fu l'amore per la natura a farlo avvicinare alla tassidermia. «Non ho mai ucciso una bestia per cattiveria o per trasformarla in un oggetto».

Nemmeno una lucertola da bambino?

«No. Anzi, ero il salvatore degli animali feriti e dei merli e delle lepri appena nati che restavano senza nido quando i contadini tagliavano le siepi. Tutti li portavano a casa mia e io gli davo il latte con il contagocce, li svezzavo con il cuore di bue a pezzetti, li imboccavo. Dopodiché qualcuno moriva e allora il mio sogno era di farli rivivere».

Sogno impossibile.

«Un giorno, avrò avuto 14 anni, andavo a caccia di lumache da vendere ai ristoranti. Sull'acqua vedo passare un nido con dentro due piccoli di germano reale. Faceva molto freddo, parevano morti. Li prendo e me li metto nelle tasche. Dopo un po', cominciano a muoversi: il calore del mio corpo li aveva rianimati. Me li porto a casa. Li cresco. Passati un po' di mesi, il maschio è volato via. Invece la femmina, Cita, che da queste parti significa bimba, è rimasta con me per due anni. Mi seguiva ovunque andassi. Una mattina l'ho trovata morta. È stato un dispiacere talmente grande che ho deciso di conservarla per sempre».

Come?

«Mi sono documentato sui libri. Dapprima l'ho scuoiata. Non avendo i prodotti giusti, l'ho trattata con sale fino. Ho ricostruito il corpo con la paglia, mettendo i ferri per sostenere zampe e ali. Mi è durata fino al 2012, quando me ne sono dovuto separare perché pelle e piume cominciavano a sfaldarsi a causa della tecnica rudimentale di conservazione».

Intanto s'era inventato un mestiere.

«In passato il tassidermista doveva avere soprattutto stomaco. Poi sono arrivati il sughero e il gesso. Oggi con le fibre sintetiche bisogna essere bravi scultori per ricostruire i corpi degli animali. Per la pelle uso una concia bianca che non è nociva né per l'uomo né per l'ambiente: sale grosso da cucina e solfato doppio di alluminio e potassio, che sarebbe poi l'allume di rocca delle matite emostatiche usate per fermare il sangue quando, nel radersi, ci si procura un taglietto».

Il suo lavoro è utile alla scienza?

«Altroché. Sotto la pelle di alcune volpi ho trovato degli strani ricciolini: filaria sottocutanea. Ho fornito io al professor Giacomo Giacobini, decano del dipartimento di anatomia, farmacologia e medicina legale dell'Università di Torino, i campioni per lo studio della filariosi. E poi mi sono specializzato nelle preparazioni osteologiche. Per esempio ho ricostruito le parti mancanti dei tre scheletri di Ursus spelaeus, il preistorico orso delle caverne vissuto nel Pleistocene, ritrovati a Borgo Sesia e a Chiusa Pesio».

Non le facevano pena gli animali veri usati con spregiudicatezza da Cattelan per le sue sculture?

«Tutte morti naturali. Lo scultore mi è capitato qui un giorno in bicicletta. Veniva da Firenze. M'è sembrato un tipo con la testa nelle nuvole. Voleva un cavallo, ma con le gambe più lunghe del normale, da appendere al soffitto nel museo di Rivoli. L'ho indirizzato da un mio collega toscano. Si vede che non è stato contento, perché qualche tempo dopo è tornato alla carica. Mi ha chiesto un asino seduto, come nei Capricci di Francisco Goya. In più lo voleva con le orecchie basse, rattristato dalla consapevolezza di essere asino. Però ironico. A quel punto ho visto per caso riflessa in uno specchio la smorfia sul mio viso per la bizzarra richiesta e da lì è venuto fuori il ghigno dell'animale poi esposto al Moma. L'asino è l'animale nel quale Cattelan s'identifica, tanto che ne regalò uno imbalsamato all'Università di Trento, quando nel 2004 la facoltà di sociologia gli conferì la laurea honoris causa. Titolo dell'opera: Un asino tra i dottori».

Che sia asino, è fuori discussione, lo ammette lui stesso.

«Gli ho fatto anche due labrador con un pulcino».

Ma un asino sospeso da terra a mezz'aria, intrappolato alle stanghe di un carretto, è arte?

«Il mio unico contributo è stato ispirarmi a una foto vera, scattata non ricordo se in un Paese dell'Est europeo o in Thailandia, raffigurante un asino rimasto in quella posa a causa del carico eccessivo. Non l'ho mai intesa come arte. Per me sono soltanto lavori che mi danno da vivere. Vale anche per le installazioni dello scultore torinese Gianni Colosimo. Mi ha chiesto un animale da appendere al soffitto, con testa, zampe e coda di asino ma corpo da cavallo, che caca dobloni d'oro sul pavimento, e un cammello montato su rotelle e rivestito di cozze, esposto al Centro Pompidou di Metz».

Mettere in mostra un cavallo con la testa infilata nel muro mi sembra una crudeltà indicibile.

«Nell'equino imbalsamato la testa non c'è, si tratta di un'illusione ottica».

Qual è il reperto più strano che ha avuto fra le mani?

«Il tahr dell'Himalaya, un grosso ungulato mandatomi da un cacciatore veneto che lo aveva abbattuto nel Nepal».

Sono in molti a chiederle d'imbalsamare trofei venatori?

«Sempre meno. Uno dei miei clienti più affezionati era Manlio Tonutti, imprenditore friulano titolare dell'omonima azienda che stampa etichette, grande appassionato di safari in Africa. Mi mandava leoni e leopardi, ma adesso è un po' di tempo che non lo sento».

Allievi ne trova?

«Ne avevo quattro, fra i 20 e i 40 anni. Con il calo degli affari sono rimasti in tre. L'importante è che non sappiano fare niente, ma abbiano interesse per il mestiere e voglia d'imparare. Ci penso io a insegnargli i trucchi. Avevo anche trovato una cascina a Villanova d'Asti dove aprire una scuola per tassidermisti: la crisi ha mandato a pallino il progetto».

È un lavoro che dà da vivere?

«Non si diventa ricchi. Spesso finisco impelagato per diletto in imprese folli».

Tipo?

«Ho appena ricoperto con lamina d'oro una Morpho didius, farfalla del Perù con 15 centimetri di apertura alare. Ha idea di quale sia la fragilità delle ali?».

Se lei incappa in una vipera, che fa?

«Le giro intorno. Ma scappa prima di suo. Di certo non la ammazzo. Serve».

Quindi il senatore Roberto Calderoli ha fatto male a uccidere un innocuo biacco entratogli in cucina.

«Quando avvisto un serpente, cerco di capire di che specie si tratta. Se non c'è tempo per pensare, faccio come Calderoli. In questi casi vale la legge del più forte».

Riesce a scuoiare tutti gli animali?

«Coda della lucertola e pelle della beccaccia sono ostacoli insormontabili».

Non le fa pena svuotare una tigre?

«È troppo comodo nascondersi dietro un paravento per non vedere. Uccidere un pollo è una cosa brutta. E comprarlo appena sfilato dal girarrosto no? Qualcuno deve pur fare il lavoro sporco. Ecco, il mio non lo è, perché ridò un po' di vita a qualcosa che ne era privo».

Ci sono padroni di cani o gatti che se li fanno imbalsamare?

«Cerco di evitarli. Posso dare all'amico a quattro zampe la posa che il cliente mi chiede e gli occhi del colore giusto. Ma non posso restituirgli le mille espressioni che aveva in vita. Per cui quando vengono a riprenderselo, so già qual è la frase: “Bello, però non si muove”. Preferisco evitare questo triste momento».

Se la sentirebbe di preparare un corpo umano, come facevano i fratelli Signoracci di Roma con le salme dei papi? Uno di loro, Cesare, mi ha raccontato che ha imbalsamato anche Antonio Segni e Alberto Sordi.

«Dicono che a Battista “Pinin” Farina sia stato riservato lo stesso trattamento. No, non me la sentirei, perché la conservazione delle parti organiche è difficile. Tutto dipende dal microclima. Per rendere l'idea: la mocetta è un muscolo di quadrupede trattato, ma non è un salume che si può fare ovunque. Viene bene solo a Bosses, verso il Gran San Bernardo».

Qual è l'attestato più ambito che ha avuto finora per la sua attività?

«Una volta ho visto Elisabetta Canalis fotografata accanto a una tigre su un calendario allegato al mensile GQ. Ho telefonato in redazione per essere autorizzato a utilizzare l'immagine. La risposta è stata: “Guardi che si sbaglia, quella è una tigre viva”. Invece era morta in cattività e l'avevo riempita io di resina poliestere per il ristorante Macumba di Pinerolo».

Qual è l'aspetto più brutto del suo mestiere?

«Staccare il domatore indiano che piange avvinghiato da ore al suo ippopotamo pigmeo appena morto in un circo. M'è capitato ed è stato uno strazio».

Ci sono animali che le fanno paura?

«No. In loro non c'è cattiveria».

(722. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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