Il lockdown no, non chiamiamolo così, perché Giuseppe Conte non vuole «nemmeno sentir parlare» di confinamenti. «Il Paese non reggerebbe, né sul piano economico né su quello sociale. Avete visto che è successo a Napoli?». Il coprifuoco neppure. «Questa parola non mi piace», ripete diverse volte durante la riunione il ministro della Salute Roberto Speranza, che pure è considerato uno dei falchi. Teresa Bellanova, renziana, responsabile dell'Agricoltura, colomba, vorrebbe anche evitare la serrata di bar e ristoranti perché «avrà pesanti ricadute sul lavoro». Ma insomma, qualcosa bisogna fare. E in fretta. «O ci decidiamo a prendere un provvedimento che abbia un impatto significativo sulla curva dei contagi - spiega un importante ministro del Pd - o presto l'impatto l'avremo noi. O chiudiamo qualcosa, o dovremo chiudere la porta di Palazzo Chigi e tornare a casa».
Così, sotto la paura montante che la crisi sanitaria porti a una crisi di governo, ecco la nuova stretta. Ma si litiga su orari e dettagli, e la conferenza stampa del premier, prevista all'ora di cena, slitta. Ci sono «differenze di vedute». C'è però, dopo una giornata di vertici e trattative, qualche punto fermo. Stop a spritz e pastasciutta dalle 18 - o dalle 20 come vorrebbe il premier, o dalle 23 come chiedono le Regioni - nei giorni feriali e chiusura totale nel weekend, saracinesche a palestre, piscine, sale giochi, cinema e teatri, svuotamento serale dei centri commerciali, bombe attive di trasmissione virale, proibizione di sport amatoriali e di feste nei luoghi chiusi. Ma niente coprifuoco formale, la gente potrà girare per le città vuote e buie, andare al parco e in passeggiata. E si studia l'ipotesi di limitare gli spostamenti tra regioni. Restano aperte invece le scuole, con la didattica a distanza fino al 75 per cento alle superiori, e le attività produttive.
Guai a chiamarlo lockdown, ma in realtà è un coprifuoco di fatto quello che il governo sottopone alla Conferenza Stato Regioni. «Dobbiamo anticipare le mosse prima che la curva si impenni troppo», dice Luigi Di Maio che nega frizioni nel governo. «È il momento delle scelte - aggiunge Francesco Boccia - dobbiamo mettere in sicurezza sanitaria il Paese. Tutelare la salute per far sopravvivere l'economia. Sospendiamo le attività non strettamente necessarie, alle quali garantiremo il ristoro».
I governatori però non si fidano, vogliono «certezze» finanziarie. Qualcuno chiede maggiori risorse, altri interventi sui trasporti, altri ancora regole più snelle per assumere personale. «Stiamo agendo su un tessuto economico molto logorato», avverte Giovanni Toti. Speranza spiega che non c'erano alternative. «Abbiamo un'impennata significativa e dobbiamo fare i primi interventi per stringere e dare un segnale ai cittadini. Bisogna assolutamente abbassare l'indice di trasmissione Rt, che è all'1,5 per cento. Non è sostenibile, servono misure robuste e serie». I governatori accettano la presa d'atto della realtà dei numeri da parte di Conte. Basta insomma con le chiusure locali a orari diversi. «È necessario un comportamento omogeneo», commenta Stefano Bonaccini.
Dunque, niente limitazioni alla mobilità, saremo liberi di spostarci a qualunque ora, anche se è «raccomandato» farlo solo se necessario. Ma in sostanza con il Dpcm Palazzo Chigi cerca di bloccare gran parte delle «interazioni sociali», riducendo le occasioni di contagio. Colpita dura la movida, perché oltre alla chiusura delle sei si prevede la possibilità di sbarrare vie e piazze dove potrebbero crearsi pericolosi assembramenti. Non si vedono invece interventi sui trasporti pubblici, da settimane in sofferenza, veri veicoli del Covid.
L'Italia quindi si richiude prima di essere sommersa dalla seconda ondata. Conte ha provato a resistere fino all'ultimo, preoccupato per le conseguenze economiche e per il diffuso malcontento sociale.
Al di là delle proteste delle categorie colpite, che non si fidano più delle promesse di aiuto da parte del governo, al di là del calo dei consensi per il premier, c'è il rischio di altri moti di piazza. Riguardo a Napoli, il ministro dell'Interno Lamorgese ha parlato di «violenze preordinate». Ma più della rivolta il premier ha paura delle conseguenze politiche dell'inazione. O chiudiamo o ci chiudono.
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