Il contratto di governo tedesco iniziava - per scelta comune dei due partiti contraenti, cristianodemocratici e socialdemocratici - con un capitolo sull'Europa. Da noi, nei due mesi dopo le elezioni, di Europa se ne è parlato poco e male. Salvo accorgersi, con grande sorpresa e dispetto, che il bilancio europeo dopo Brexit avrebbe tagliato fondi - le disponibilità finanziarie inevitabilmente si riducono con l'uscita di uno dei quattro grandi Stati membri - e settori dell'economia italiana ne sarebbero stati penalizzati. Le traversie del Regno Unito per organizzare un'uscita dall'Unione che sia politicamente dignitosa e economicamente non disastrosa stanno spaventando anche quelli che erano stati i critici più feroci dell'Europa e dell'euro. Finché l'Unione non si dissolve - sempre che questa prospettiva ci convenga, di fronte a nuovi assetti mondiali che vanno marginalizzando il nostro vecchio continente, in cui non solo le squadre di calcio sono preda di scorrerie straniere - in Europa bisogna starci. E bene. E alzando la voce. E facendo valere i nostri interessi. Perché è in Europa che si prendono le decisioni fondamentali per la nostra economia e per la vita quotidiana di sessanta milioni di cittadini italiani. È in Europa che si affrontano le grandi crisi industriali, da Tirrenia, ad Alitalia, a Ilva; è in Europa che si gioca il futuro della nostra agricoltura; è in Europa che si decide sul sistema delle infrastrutture e delle telecomunicazioni; è l'Europa che governa e attua nel concreto i grandi principi della concorrenza. Nonostante le battute dei critici a buon mercato, l'Europa non è il luogo dove si disciplina la lunghezza delle banane o la quantità dell'acqua che deve uscire dagli sciacquoni. L'Europa è il vero luogo delle decisioni politiche, che vengono affrontate nella sede della rappresentanza politica generale, il Parlamento, e nella sede della rappresentanza dei territori, il Consiglio. E l'indirizzo politico viene fissato in quello che è il nuovo motore dell'Unione, il Consiglio europeo, dove siedono i capi di stato e di governo degli Stati membri. In verità, in Europa la rappresentanza degli interessi dei territori conta quanto, se non di più, della rappresentanza politica generale e di quella degli interessi economici. In questa fase di grande confusione politica, dopo due mesi trascorsi inutilmente, i partiti politici, operando con la regia attenta del presidente della Repubblica, dovrebbero trovare il modo per individuare un minimo comune denominatore di interessi nazionali che vanno rappresentati e difesi in Europa, e dovrebbero porre questi interessi alla base di un governo transitorio che permetta all'Italia di affrontare la delicata partita di Brexit, la possibile riforma delle istituzioni europee e le ricadute politiche delle elezioni europee del 2019.
Poi, gestite queste emergenze cercando di rappresentare al meglio gli interessi nazionali, eventualmente ci si dividerà nuovamente, magari dopo nuove elezioni politiche, ma senza aver rischiato in questi dodici mesi cruciali un ulteriore indebolimento del nostro Paese all'interno del quadro delle politiche europee.di Beniamino Caravita,
ordinario di Diritto Pubblico all'Università di Roma La Sapienza
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