
Una cosa è certa il riconoscimento della Palestina annunciato da Regno Unito, Australia e Canada - e seguito oggi da Francia e Portogallo - rappresenta una svolta diplomatica altamente sensazionale. Ma anche una cinica mossa di politica interna. Una mossa capace di regalare qualche consenso in più a due leader in crisi come il premier inglese Keir Starmer e il presidente francese Emmanuel Macron senza garantire benefici reali né alla causa palestinese né alla tragedia di Gaza. O peggio di rivelarsi addirittura controproducente.
Da una parte infatti, come già propone il ministro Itamar Ben Gvir, Israele potrebbe rispondere con l'immediata annessione della Cisgiordania. Dall'altra Hamas non mancherà di rivendicare la capacità d'influenzare l'opinione pubblica internazionale a colpi di massacri e presa di ostaggi. Senza contare l'ulteriore divaricazione diplomatica tra i Paesi occidentali fautori del riconoscimento e un'America di Donald Trump schierata con pochi distinguo a fianco di Benjamin Netanyahu.
Ma partiamo dall'atto formale del riconoscimento. Dal punto di vista diplomatico la svolta è assolutamente incongruente con i contenuti della Convenzione di Montreal che detta i principi fondanti di uno stato riconosciuto internazionalmente. Oggi infatti non esistono né un territorio, né un popolo, né un governo in grado di rappresentare l'entità palestinese. Alla Gaza controllata da Hamas, e in larga parte rioccupata da Israele, si contrappone una Cisgiordania dove il governo di Abu Mazen è un corrotto rottame istituzionale votato nel lontano 2005 e guidato da un presidente ormai 90enne. In tutto ciò persino il popolo palestinese, sparso non solo tra Gaza e Cisgiordania, ma anche nei vari Paesi arabi, resta un'entità difficilmente quantificabile.
Insomma un riconoscimento affrettato e pericoloso peraltro poco in linea con la proposta franco-saudita (approvata dall'Assemblea Onu lo scorso 12 settembre e appoggiata anche dall'Italia) che propone un passaggio molto più graduale verso la "soluzione dei due stati". La decisione di concedere rappresentanza internazionale al confuso coacervo palestinese senza aver prima avviato una seria riforma istituzionale dell'Anp rischia peraltro di rivelarsi un inaspettato regalo ad Hamas. E un'ulteriore giustificazione per le drastiche mosse del governo Netanyahu. I capi del gruppo terrorista di certo non perderanno l'occasione di far credere ai palestinesi che la svolta internazionale sia il risultato dei massacri del 7 ottobre, della spietata detenzione degli ostaggi e della strenua resistenza opposta a Gaza. I primi a intravvedere questo rischio sono gli israeliani ben consapevoli di come Hamas continui a esercitare la sua influenza non solo a Gaza, ma anche nella Cisgiordania. Non a caso il primo ministro Netanyahu risponde annunciando che "non vi sarà alcuno Stato palestinese".
E il falco Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, ne approfitta per cercar consensi invocando "l'immediata applicazione della sovranità israeliana" sulla Cisgiordania. Alla fine, insomma, nulla cambia. Netanyahu va per la sua strada, Trump l'appoggia e tutto il resto non conta.