Faccetta nera, Sanzionami questo, Ma l'amore no, l'amore mio non può.... Gli anni del fascismo in Italia, che periodo anche per la musica leggera e non. La colonna sonora dell'ascesa di Mussolini, il regime, le terribili stagioni della guerra, l'armistizio. C'è chi - proprio mentre arriva il primo sì alla legge sul fascismo, ovvero al testo che vuole introdurre nell'ordinamento il reato di propaganda - ha pubblicato un saggio su un aspetto del Ventennio poco battuto dagli studiosi: il ruolo della «canzonetta» (che poi tanto canzonetta non era, ndr). Uno studio che è anche un'occasione di dibattito. Ricerche su un tempo in cui l'apparato, il Minculpop, usò e controllò la melodia popolare e le parole a scopi propagandistici. Brani con testo per far passare messaggi, convincere, orientare, appoggiare i più diversi obiettivi fissati. Tutto anche via radio.
«Già, proprio così - attacca Gioachino Lanotte, docente a contratto di Storia contemporanea presso la facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell'Università Cattolica e autore del nuovo libro Mussolini e la sua Orchestra - Radio e musica nell'Italia fascista (il saggio della Prospettivaeditrice è stato presentato venerdì scorso al Mamu di Milano) - No, non mi è sembrato affatto superfluo riprendere questo tema, perché tra le altre cose aveva perso vigore, è un lavoro che ho portato avanti e concluso senza un approccio ideologico».
Questo viaggio nella canzonetta nostrana di quegli anni mostrerebbe che in realtà «il totalitarismo italiano è stato imperfetto, più vagheggiato che realizzato, sperato dal regime» che ha cercato di «creare un linguaggio emotivo» evidentemente utile alla causa, non sempre riuscendoci. Era la propaganda per sostenere le cosiddette «campagne - continua il professore - come la ruralizzazione, la guerra in Etiopia e quella per la costruzione dell'uomo nuovo».
Per dirne una, l'Africa: bisognava «spiegare» agli italiani il perché della guerra contro il Negus prima ben visto; «bisognava ribaltare la sua figura». Il conflitto venne raccontato come un'azione «di civiltà per liberare le donne etiopi, insomma un gesto generoso». Fioccarono brani cantabili e canticchiabili come Ti saluto, vado in Abissinia, Faccetta nera e Povero Selassiè. Altra questione, altra campagna da musicare: quella demografica. Pure in questo caso la formula della canzonetta tornò comoda, vennero messi al lavoro compositori e parolieri da cui sortirono pezzi come Signorine sposatevi. «Un chiaro invito alle ragazze ad accalappiare gli scapoli», afferma lo studioso. In quegli anni chi rimaneva scapolo «doveva pagare una crudele tassa» (l'imposta sul celibato, il proposito era quello di favorire i matrimoni e, di conseguenza, incrementare il numero delle nascite). Stessi meccanismi o quasi per le altre «missioni» dove la canzone orecchiabile fece il suo mestiere. La ruralizzazione sostenuta da brani come Reginella campagnola, La canzone del boscaiolo, Contadinella prima bruna e poi bionda. La campagna sullo sport. «Bisogna non dimenticare che lo sport non cura solo lo sviluppo fisico della razza, ma è suscettibile di fenomeni morali e politici e legato a interessi economici che devono essere seguiti e vigilati» si legge nel libro. Ed ecco quindi pezzi come Il mio amore è un centrattacco, Nuvolari e Arriva Tazio. Anche le nuove tecnologie dell'epoca ebbero il loro ruolo forte.
Tra i protagonisti in questo senso di questa storia sicuramente c'è la radio - nel gennaio 1928 l'Uri divenne Eiar (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche)-. La radio, mezzo di comunicazione di massa da cui vennero diffuse anche le canzoni nel periodo bellico. «Ma queste facevano poca breccia - continua il docente universitario autore del saggio - Venivano preferiti titoli che poi sono resistiti nel tempo, vediamo Parlami d'amore Mariù». Consenso e dissenso.
Alla fine si può dire che gli italiani «lasciarono fare, il loro fu un
rapporto di acquiescenza - è la conclusione - Le istituzioni decisero di staccare la spina quando la società ormai si era già scollata da diversi mesi». E le canzonette servirono ben poco, fu la fine di questo «concerto».
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