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Beviamo la birra del lavandino? Quando la sostenibilità supera il limite del buon senso

Tecnologia impeccabile, marketing entusiasta… eppure l’idea di brindare con l’acqua delle docce e degli scarichi continua a far venire un mezzo brivido.

Beviamo la birra del lavandino? Quando la sostenibilità supera il limite del buon senso
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Negli ultimi anni si è aperta una tendenza che lascia molti osservatori più perplessi che entusiasti: la produzione di birre ottenute da acque reflue o acque grigie.
Non è una leggenda urbana né una trovata virale da social network: esistono davvero birre prodotte con l’acqua delle docce dei condomini, con quella proveniente da lavandini e lavanderie, e persino con acque fognarie completamente depurate.

La tecnologia, ci assicurano ingegneri e aziende, è solida: sistemi di filtrazione a membrane, processi di ossidazione avanzata, raggi UV e ozono riportano queste acque a una qualità “pari o superiore a quella potabile”. Eppure… la sensazione resta strana. Molto strana.

Il caso più noto è la Epic OneWater Brew, prodotta a San Francisco insieme a un birrificio artigianale utilizzando l’acqua rigenerata delle docce di un grande complesso residenziale.
In Europa, il progetto tedesco Reuse Brew ha dimostrato che anche le acque reflue urbane, se trattate correttamente, possono finire in una bottiglia di birra degustata in eventi pubblici.
A Singapore, la birra NEWBrew ha fatto discutere per lo stesso motivo: nasce da acque riciclate dal sistema idrico nazionale, una parte delle quali ha origine negli scarichi cittadini. Le autorità locali hanno spiegato che è un simbolo dell’autosufficienza idrica del Paese e che l’acqua così trattata è assolutamente sicura. In effetti tutti i dati scientifici disponibili confermano che, dopo la purificazione, quest’acqua rispetta gli standard più severi. Eppure rimane un cortocircuito psicologico.


Possiamo anche essere certi al 100% che l’acqua sia pura, ma l’idea che pochi giorni prima scorresse nelle tubature delle docce o raccolga ciò che si accumula nei lavandini non rende più semplice la degustazione.
I produttori affermano che, se nessuno sapesse la provenienza dell’acqua, nessuno noterebbe differenze nel sapore della birra. Probabile. Ma il punto è proprio questo: la birra dovrebbe affascinare per il malto, il luppolo, la fermentazione, la sua storia secolare… non per una provenienza idraulica che richiede un atto di fede. È come se l’innovazione, pur nobilissima dal punto di vista ambientale, si scontrasse con un istinto ancestrale che ci ricorda da dove provengono certi tubi.

Nessuno nega i benefici ecologici: in un mondo che affronta periodi di siccità sempre più gravi, il riciclo delle acque è un tema imprescindibile. E se la birra può diventare un modo per sensibilizzare il pubblico sulla sostenibilità, ben venga. Ma serve chiedersi fino a che punto la comunicazione debba spingersi.
Perché un conto è dire “questa tecnologia può salvare milioni di litri d’acqua”, un altro è trovarsi davanti una bottiglia nata dall’acqua della doccia di un perfetto sconosciuto, accompagnata dalla rassicurazione «tranquilli, è tutto depurato».

Forse tra qualche decennio nessuno ci penserà più e queste birre diventeranno normali, come oggi nessuno si stupisce del riciclo dell’aria nelle stazioni spaziali o del riutilizzo delle acque negli impianti industriali.

O forse resteranno una nicchia curiosa, una provocazione tecnologica pensata più per far discutere che per conquistare il mercato. Ma ora come ora, davanti a una pinta ottenuta da acque che fino a poco prima non avremmo mai immaginato di bere, una domanda resta inevitabile: stiamo davvero bevendo il futuro… o stiamo un po’ esagerando?

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