Così Rimini è diventata la Chinatown adriatica

Negli ultimi 5 anni hanno chiuso oltre mille negozi italiani. La maggior parte è stata rilevata da cinesi

Così Rimini è diventata la Chinatown adriatica

nostro inviato a Rimini

Partendo da Marina Centro a Rimini, sul lungomare che porta fino a Miramare alle porte di Riccione, sono tanti i negozi che su viale Amerigo Vespucci, viale Regina Elena e viale Regina Margherita, hanno abbassato le saracinesche. Ben 1.100 in cinque anni: 209 nel 2010, 206 nel 2011, 218 nel 2012, 215 nel 2013, 212 nel 2014 e 138 nei primi sette mesi del 2015. Uno sterminio in appena sei chilometri di costa. E anche hotel, ristoranti e locali non se la passano meglio: a causa del tonfo del settore turistico, questa estate sono stati assunti 1.850 dipendenti in meno, un calo del 6,6 per cento rispetto al 2014.

Segno non solo della solita crisi, ma anche delle politiche economiche dei comuni che spesso non vengono incontro alle imprese. «Vedere trenta vetrine chiuse, murate, nel colmo della stagione turistica non offre una bella immagine di Rimini a chi sceglie noi per le proprie vacanze», dice il consigliere comunale di Fratelli d'Italia, Gioenzo Renzi.

Nello stesso tratto di lungomare sono, invece, spuntati come funghi circa cento negozi gestiti da stranieri: perlopiù cittadini del Bangladesh e cinesi, e a Borgo Marina i market asiatici vendono merce senza regole fino a mezzanotte. E' proprio in questo angolo etnico di Rimini che gli abusivi vengono a rifornirsi. Dalle 12 alle 15 arrivano decine di furgoni che parcheggiano in doppia fila e caricano merce da vendere sulle spiagge. «Sospendono l'attività solo per il Ramadan», dicono i residenti.

Dietro ad ogni negozio chiuso si celano affitti esosi, costi di gestione, spese del personale, debiti contratti con i fornitori, una pressione fiscale asfissiante, contravvenzioni a tappeto di polizia municipale o guardia di Finanza anche per un solo scontrino non emesso. Tutti elementi che hanno portato negli anni ai fallimenti di queste attività commerciali. Due giorni fa un barista di 45 anni, padre di tre figli, soffocato dai debiti con dipendenti e fornitori, si è ucciso impiccandosi nel suo bar di Santarcangelo di Romagna di cui era titolare da 13 anni.

Proprio Fratelli d'Italia ha lanciato la campagna agostana «Io compro nei negozi italiani, non dai venditori abusivi. Fallo anche tu!», cinque sit-in serali in luoghi strategici dell'abusivismo riminese e 10mila volantini da distribuire a turisti e residenti. Perché «è anche colpa dell'abusivismo se tanti negozi italiani hanno chiuso». Nei confronti dei negozianti regolari, infatti, il commercio illegale opera in regime di concorrenza sleale, per via delle tasse che i primi pagano e i secondi no. Inoltre il commercio abusivo produce un fatturato stagionale di milioni di euro, soldi che finiscono all'estero e penalizzano la nostra economia.

Lo scopo di questa campagna balneare è di responsabilizzare il turista cercando di spiegare che ogni borsa, ogni bracciale, ogni occhiale che compra da un abusivo, sono soldi che finiscono nelle tasche delle organizzazioni criminali ed è un negozio italiano in più che rischia di chiudere.

Lo slogan «compra italiano» informa che acquistare dagli abusivi è vietato (le sanzioni vanno da 200 euro a 7mila). Ma mentre quelle emesse contro gli stranieri non vengono pagate perché nullatenenti, quelle a carico dei turisti sì. Per questo il rischio è che i Comuni siano più propensi a multare chi compra piuttosto che chi vende.

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