Parlare di chiusura delle frontiere regionali per i pazienti che chiedono di essere curati in una sede differente da quella di residenza lascia perplessi, in una Europa che sancisce oramai da tempo la libera circolazione delle persone e il diritto di farsi curare dove si può avere una risposta migliore. La mobilità sanitaria nasce da sollecitazioni differenti che bisognerebbe analizzare in profondità, dal momento che coinvolge aspetti umani, sociali, economici ed etici. Un trattamento medico fatto lontano da casa implica fatica, spese e scomodità. Il paziente che decide di sobbarcarsi tutte queste situazioni di stress, lo fa per ricercare la miglior cura, per far valere il diritto alla salute sancito dalla nostra Costituzione. Lo snodo fondamentale è la fiducia di una persona verso l'istituzione che fornisce la cura: se manca, il cittadino si sente lasciato solo e cerca altrove risposte al suo disagio. Un'analisi seria dovrebbe farci riflettere sul perché in certi contesti manchi tale fiducia da parte della persona malata. A volte questa ricerca non è giustificata, ma è dovuta a una percezione distorta da preconcetti, da aspettative determinate dalla disperazione o da vere e proprie manovre di marketing che nulla hanno a vedere con la buona medicina. Se pensiamo a quello che è accaduto all'epoca di Stamina il concetto si chiarisce. Una forma di terapia senza alcun fondamento ha spinto persone a pretendere tale pseudo terapia contro ogni logica. È però evidente a tutti che le cure e gli ospedali non sono uguali ovunque. La sanità è tecnica, cultura, empatia, rispetto. Molti pazienti che si spostano raccontano che, paradossalmente, lontano dalla loro residenza sono stati trattati meglio rispetto all'ospedale di casa: questo aspetto pesa indipendentemente dalle cure ricevute, perché è indice di rispetto della persona. In alcuni centri il paziente è considerato una risorsa, in altri un peso: di questo le persone si rendono conto immediatamente, così come percepiscono se vi è o no un'organizzazione efficiente. Ci sono poi i risultati: non è facile avere una chiara conoscenza dei risultati dei vari centri, perché i pazienti trattati potrebbero essere differenti: certi ospedali, pur di aver ottimi risultati, potrebbero «rifiutare» i pazienti più a rischio che pure hanno più bisogno di essere trattati. A livello nazionale il Programma nazionale esiti sviluppato da Agenas mostra differenze sostanziali che possono spiegare perché una persona, una famiglia si sobbarchino tanta fatica pur di avere una risposta concreta.
Quindi sarebbe molto più serio, economicamente sostenibile ed eticamente corretto che, anziché innalzare barriere, la Conferenza Stato-Regioni analizzasse gli elementi e i dati che sono disponibili a tutti e prendesse provvedimenti coerenti a migliorare la qualità delle cure, lasciando la libertà alle persone ammalate di farsi curare dove le competenze sono più elevate. Innalzare barriere vuol dire proteggere le sacche di inefficienza che esistono a danno di chi ha bisogno di essere curato in modo adeguato.*direttore scientifico e di Cardiochirurgia del Policlinico San Donato
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