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Covid, ecco tutte le falle nel modulo per entrare in Italia

Il Passenger Locator Form è pieno di falle: Paesi sbagliati, regole sui tamponi errate. E non è obbligatorio indicare la città dove si andrà a vivere

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Si chiama Passenger Locator Form (Plf) e lo devono compilare tutti i viaggiatori in arrivo in Italia. Aereo, nave, bus, auto privata. Chiunque varchi il confine, oltre a mostrare il green pass, dallo scorso aprile deve anche sottoscrivere questo modulo nato per rintracciare infetti e contatti stretti in caso di focolaio Covid. Lodevole iniziativa, in teoria. Peccato lo strumento abbia due enormi falle, che rischiano di renderlo inutile se non pericoloso.

Il più grande baco riguarda il modulo digitale, che risulta “completo” solo per chi approda in Italia con un aereo. Il sistema chiede di indicare destinazione, nome della compagnia, numero del volo, data e aeroporto di partenza e sbarco. Tutto tracciato, come da decreto ministeriale. I problemi però insorgono altrove: chi sceglie di farsi una vacanza nel Belpaese arrivando in nave, traghetto, autobus o auto, infatti, può far perdere tranquillamente le proprie tracce senza neppure rischiare una denuncia per falsa dichiarazione.

Immaginate di arrivare dalla Francia e di voler varcare il confine in auto per un bel giro tra le città d'arte italiane. Il governo vuol sapere dove alloggerete, in caso dovesse contattarvi. Nulla di strano. Nell'indicare il luogo temporaneo di domicilio, però, il sistema richiede tra le informazioni “obbligatorie” solo lo “Stato” e la “via”. Niente Regione, città, numero civico o nome dell'albergo. In pratica se voleste evitare di farvi rintracciare, potreste tranquillamente scrivere che andrete in “Italia” in “via Cavour”. Qualora doveste risultare positivi, o contatti stretti di un infetto, le autorità dovrebbero darvi la caccia in tutte le vie Cavour d'Italia. Senza uno straccio di indicazione in più. I diretti interessati, tecnicamente, non stanno incorrendo in dichiarazioni mendaci visto che il format online considera la città e il numero civico informazioni “opzionali”.

Di stranezze - va detto - se ne trovano altre, come il sesso politicamente corretto (maschio, femmina, altro) o la richiesta di indicare “in inglese” il numero di posto sul traghetto, come se a Londra usassero numeri diversi dai nostri. Arrivati alle dichiarazioni finali, però, si incorre in ben più gravi inesattezze. Intanto il malcapitato deve dichiarare di essere a conoscenza delle misure di contenimento Covid contenute del decreto di Draghi del lontano 2 marzo, come se in mezzo non fosse successo altro. Poi la carrellata dei Paesi sottoposti a restrizioni, diviso negli elenchi C-D-E, è del tutto sballata. E soprattutto non quadrano le tipologie di certificazioni da presentare all’approdo in Italia. Secondo il Plf, il viaggiatore deve presentare un certificato che attesti “una delle seguenti condizioni” tra avvenuta vaccinazione, guarigione e un “tampone molecolare o antigenico effettuato nelle 48 ore” precedenti alla partenza. L'ultima ordinanza di Speranza, invece, non dice questo: per entrare nel Belpaese bisogna soddisfare tutte le condizioni contemporaneamente (vaccino/guarigione più tampone) e soprattutto il test rapido vale solo 24 ore, non 48.

Se a questo ci si aggiunge che in aeroporto il controllo del Plf è demandato alle compagnie aeree, il quadro si fa a tinte fosche. La verifica, riferiscono al Giornale alcuni viaggiatori, avviene random: a volte viene chiesta, e non sono pochi i passeggeri rimasti a piedi per essersi dimenticato di compilarlo; molte altre volte si preferisce chiudere un occhio. Dimostrazione che lo strumento burocratico, nato in teoria per tracciare gli infetti Covid, utilizzato così rischia di fare acqua da tutte le parti.

Houston, abbiamo un problema.

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