Crippa, pensiero e natura. Lo chef che parla alle erbe

Il cuoco brianzolo reinterpreta la cucina delle Langhe grazie al suo passato giapponese e al suo celebre orto

Crippa, pensiero e natura. Lo chef che parla alle erbe

Se esistesse una lista delle sette meraviglie gastronomiche italiane, uno slot andrebbe certamente riservato all'orto di Enrico Crippa, un santuario della natura che si fa tavola, il padre di tutti i discorsi sulla sostenibilità in cucina, pronunciato però in tempi non sospetti. Si tratta di uno spazio enorme all'interno della tenuta Monsordo-Bernardina che la famiglia Ceretto, un'icona delle Langhe vitivinicole, ha voluto devolvere allo chef del loro ristorante, Piazza Duomo d'Alba: tre ettari all'aperto più cinquecento metri quadrati di serre coperte, in cui Crippa coltiva e fa coltivare quasi tutto quello di cui ha bisogno per la sua cucina, e in quel quasi sta tutto il cruccio di chi vorrebbe raggiungere il cento per cento di autoproduzione ma ancora non è possibile.

Fatto sta che l'orto di Crippa è un luogo mitologico, che come la Settimana Enigmistica vanta innumerevole e infruttuosi tentativi di imitazione e quando in qualche ristorante di una qualche ambizione sentite pronunciare la frase: "La zucchina trombetta del nostro orto", in qualche modo tutto è nato da questo grande spazio nelle Langhe, dove Enrico Crippa si reca ogni giorno con il suo furgoncino bianco a vedere che cosa c'è di buono, che cosa c'è di pronto, da far finire nei patti del ristoranti. Uno dei quali, l'Insalata 21... 31... 41... 51..., contabilizza gli ingredienti che ci finiscono dentro, in una esaltante glorificazione della biodiversità.

Crippa è una figura piuttosto anomala nella scena gastronomica italiana. Intanto per la sua fisiognomica: uno scricciolo magro e scattante con la faccia ieratica di un filosofo teoretico, di un artista concettuale, di un mimo. Di Crippa dentro un Cannavacciuolo qualsiasi ce ne starebbero almeno due e avanzerebbe anche qualcosa. Lo guardi e dici: e io mi dovrei far nutrire da un così?

Poi c'è da dire che lui si mostra poco, in televisione ci va raramente, di solito preferisce stare in cucina, tre anni fa lo intervistai la mattina alle otto mentre puliva dei cavolfiori, e non ce ne sono molti di chef tristellati che ancora si sporchino le mani in cucina, spalla a spalla con gli altri membri della loro brigata.

Infine Enrico Crippa parla poco, non è un caso che sia considerato un cuoco scostante, ma garantisco che non lo è, è solo uno abituato a far parlare i piatti e il suo modo di rispettare e valorizzare gli ingredienti.

Crippa è nato nel 1971 a Carate Brianza ed è uno dei tanti figli professionali di Gualtiero Marchesi, uno di quelli veri ma ha avuto anche altri maestri, Ferran Adrià, Michael Bras, Antoine Westermann, ma fondamentale nella sua formazione sono stati gli anni giapponesi, che ne hanno forgiato il carattere da samurai in miniatura, zen e tenace. L'incontro dela sua vita è però stato quello con Bruno Ceretto nei primi anni Duemila. Il grande uomo del vino si era messo in testa di creare un grande ristorante di famiglia, nella convinzione illuminata che una terra di grandi vini avesse bisogno di tavole all'altezza. Fu Carlo Cracco a segnalare a Ceretto questo giovane magro e spiritato, e la leggenda vuole che quando i due si incontrarono parlò quasi solo Bruno, che alla fine per accertarsi di essersi spiegato, dal momento che Crippa per lo più taceva, concluse così: "Insomma, dobbiamo arrivare in cima in fretta, questo territorio ne ha bisogno e lo merita. Capito Crippa? Capito Crippa? Capito Crippa?".

E Crippa ha capito piuttosto bene, se è vero che oggi Piazza Duomo, al centro della ricca e tartufesca Alba, ha tre stelle Michelin dal 2012, quest'anno si è piazzato al numero 32 della classifica della Fifty Best, che mette in fila i migliori ristoranti del mondo. Ha certamente la fortuna di avere dalla sua parte una famiglia facoltosa, intelligente, colta, che si fida, gli mette a disposizione quello che gli serve e lo lascia libero. Ma lui certamente fa buon uso di queste risorse. Quanto è arrivato nelle Langhe, lui brianzolo di rito nipponico, si è messo a studiare quel territorio quasi sconosciuto e oggi lo conosce a menadito, e ne è uno dei più fedeli cantori, anzi si è messo in testa di ricostruire l'immagine di alcuni piatti tipici piemontesi secondo lui trascurati, la finanziera, il carpione, l'insalata bergera, il fritto misto alla piemontese, e ne propone delle versioni evoluzionistiche nel suo ristorante fine dining e delle versioni più ortodosse nella piola che sta sotto al ristorante, al livello della strada, e che già da sola vale il viaggio.

Piazza Duomo è un locale classicista, elegante e posato. La mise en place è tradizionale, da tovaglia, certe svisate blues non sono propizie. Due i menu degustazione: Il Viaggio (otto portate, 290 euro) e lo stagionale Seasonal Things, che varia ogni giorno (350 euro), ma c'è anche una piccola carta con i classici, come la Carne cruda battuta al coltello e la Lasagna di animelle. Il momento più esaltante è quello iniziale, quando la tavola si riempie di una ventina di piattini nell'"antipasto piemontese" che è un autentico spasso: fagiolini con bernese verde e agretti di campo; due cialde di pane con pastrami di maiale; tacos vegetariano di ceci farcito con scalogno, guacamole e maionese di soia. Tra i piatti che mi hanno più convinto, il Saor senza sarda ma con il merluzzo, la trippa che abiura alle proteine animali utilizzando come struttura il pistillo del fiore di zucchina, i cavatelli mantecati con salsa di pesce, olio al basilico e basilico dell'orto; la rana pescatrice al burro con peperone crusco.

Per chiudere un omaggio a Kandiskij, tratto dalla piccola collezione di piatti che Crippa dedica agli artisti che lo ispirano: Cerchi in un cerchio.

Una meraviglia, e poi il servizio è soavemente diretto daDavide Franco, la cantina evade dalle restrizioni familiari grazie allintelligenza del "cantiniere" Jacopo Dosio.

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