«Ciao, sono Stefania». Un flash: quasi quarant'anni fa, la grande casa di Bettino Craxi in via Foppa: e la figlia neanche ventenne, che apre agli amici i grandi corridoi dall'arredamento un po' pesante, i cimeli di Garibaldi accumulati dal padre sugli scaffali quasi alla rinfusa. La voce è la stessa di allora. Ora viene da lontano, da Hammamet. Com'è il tempo, lì, Stefania? «Nei giorni scorsi era freddo. Oggi è bellissimo, è il tiepido inverno di Hammamet». Chissà se parla solo del clima in Tunisia o anche del disgelo improvviso, qui, sull'altra sponda del Mediterraneo, dove per la prima volta sembra potersi parlare di Bettino Craxi senza paraocchi, degli errori ma anche delle intuizioni, del coraggio come delle asperità.
Piccole cose si muovono: il ministro degli Esteri, Alfano, che scende in Tunisia a portare i fiori sulla tomba, li appoggia sul libro di marmo con l'epigrafe, «la mia libertà equivale alla mia vita»; il sindaco di Milano che si dice favorevole a «riaprire il dibattito» su una via da intitolare al primo premier socialista della storia d'Italia: laddove è chiaro che la questione, vecchia e in fondo uggiosa della via o della piazza da battezzare non è più una faccenda toponomastica bensì una questione che riguarda la politica, la memoria, persino l'identità nazionale, il bisogno di un paese di fare i conti col suo passato.
Grumo Appula, Alà dei Sardi, Castiraga Vidardo: piccoli borghi dai nomi immaginifici qua e là per il Paese hanno già dedicato una via a Craxi. Ma è ovvio che la battaglia sarà vinta quando a sdoganare Craxi sarà la sua città, quella che - anche nei lunghi anni di Palazzo Chigi - fu la capitale di «re Bettino». E il giorno che a Milano ci sarà una via Craxi ad averne il merito e a trovare finalmente pace sarà soprattutto sua figlia Stefania, questa donna ostinata e aspra, dal carattere spesso non facile ma forse pure lei come il padre in fondo timida.
È la volta buona, Stefania? O sono le manfrine consuete della politica, le aperture fasulle destinate a finire in nulla, tra tattica e menzogna? «Il clima si è davvero rasserenato, finalmente. Stavolta ho sentito meno ragli del solito». Ragli? «Esattamente. A strepitare è rimasto il Trio Manetta, quelli del Fatto, insieme a personaggi che su questa storia hanno costruito carriere da giudici e da politici, in testa il signor Di Pietro che farebbe meglio a spiegare le tante cose oscure che lo riguardano o a tacere per sempre». Ed eccola qui, inevitabile, inesauribile attraverso i decenni, la rabbia verso il pm contadino, il presunto salvatore della Patria dalle grinfie dei partiti ladri, e che già Ghino di Tacco, sulfureo alias di Craxi, accusò oltre che di umane debolezze anche di essere docile ed alacre strumento di manovre assai più grandi di lui.
Della tesi craxiana del complotto, Stefania è stata l'erede e la continuatrice: sia negli anni della latitanza ad Hammamet, quando il fax era rimasto l'unico contatto tra suo padre e il mondo; e soprattutto dopo quel pomeriggio di gennaio di diciassette anni fa, in cui entrando nella camera da letto della grande villa bianca - che da ragazzina detestava, per le vacanze francamente pallose che insieme al fratello Bobo le toccava trascorrervi, e che poi aveva imparato ad amare - trovò suo padre senza vita. Viene da chiederle, a costo di essere indelicati, se la sua rabbia costante non sia sintomo di un lutto non elaborato. «La morte di un genitore si supera, un figlio è preparato a dover seppellire suo padre. Quello che non ho elaborato e non elaboro è il senso di ingiustizia che porto nel cuore. Ho dovuto condurre una battaglia contro un muro fatto di ipocrisie e di viltà, cementato da un misto di ignoranza e opportunismo. Adesso vedo che il muro si sta finalmente sgretolando. Era ora».
Sul perché le aperture arrivino proprio adesso - troppo tardi secondo lei, troppo presto per gli irriducibili - le idee possono essere disparate. «La storia avanza con passo felpato», dice Stefania. Ma è anche convinta, e appare difficile darle torto, che conti la delusione profonda degli italiani per l'Italia di oggi, le promesse mirabolanti di una Seconda Repubblica rivelatasi la brutta copia della prima, «c'è davvero qualcuno che sente di stare meglio oggi che negli anni Ottanta?». Ciò che conta, dice, è che il clima sta davvero mutando: «Io penso che le aperture all'interno del Partito Democratico siano sincere».
Lei oggi è una donna matura, due matrimoni, tre figli, una passione politica mai sopita, che l'ha portata anche a scontrarsi duramente col fratello, colpevole di essersi schierato alla fine con gli erede dei persecutori del padre. Anzi, non del padre: di Craxi. Lo chiama così, col cognome: e così intende dire che non difende un parente per dovere filiale, ma una figura ed un epoca, spazzati via da «uno scontro tra la politica e i poteri alti, fatti di lobby economiche e finanziarie. Si può rileggere la storia di Tangentopoli - dice come storia delle privatizzazioni, che vennero presentate e poi imposte come la liberazione da tutti i mali».
Quest'anno un libro di Matteo Gerlini, Il dirottamento dell'Achille Lauro e i suoi inattesi e sorprendenti risvolti, ha raccontato come gli Stati Uniti - dichiarazioni ufficiali a parte - non avessero perdonato al governo italiano la notte di Sigonella, quando Craxi mandò l'esercito a bloccare i marines che volevano catturare il capo dei dirottatori, Abu Abbas. C'entra quella notte, Stefania, con il ciclone di Mani Pulite? «Io so cosa pensava Craxi.
Craxi non ha mai pensato a una vendetta diretta per i fatti di Sigonella. Ma sapeva di essere un uomo scomodo, perché aveva difeso l'autonomia politica della nazione. Dimostrò di essere un leader e di non essere pronto a piegarsi. Insomma, era un uomo che era meglio eliminare».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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