Milano - «Sull'arresto di Mantovani non ci sono i presupposti di legittimità ma neppure di decenza»: così Roberto Lassini, difensore dell'ex vicepresidente della Regione Lombardia arrestato martedì per corruzione e concussione, lancia ieri la nuova mossa contro il mandato di cattura chiesto e ottenuto con incredibile ritardo da parte della Procura di Milano. Per Lassini non c'è ombra di dubbio: a intervenire contro le modalità del blitz giudiziario che ha scatenato il marasma politico in Lombardia deve essere l'Unione Europea. Quegli organi di giustizia comunitari che da sempre abbandonano di bacchettate all'Italia, stavolta devono fare sentire la loro voce anche se la vittima è un politico di centrodestra, dice Lassini. «Mi aspetto che qualcuno da Bruxelles - ha spiegato il legale - dica qualcosa su una richiesta di custodia cautelare rimasta nel cassetto tredici mesi prima di essere eseguita. L'Unione Europea - ha concluso - sempre pronta a sanzionare l'Italia sui ritardi nell'applicazione delle direttive comunitarie in materia di diritti umani, prenda una posizione».
I tempi d'intervento delle corti di Strasburgo e Lussemburgo, però, sono notoriamente ancora più lenti di quelli della giustizia italiana. Così insieme all'appello all'Ue, il legale dell'ex senatore azzurro mette in moto anche gli strumenti più tradizionali a sua disposizione. La richiesta di concessione degli arresti domiciliari, già approdata sulla scrivania del giudice Stefania Pepe, a cui ieri la procura s'è precipitata a dare parere negativo, è stata arricchita in queste ore da una nuova memoria difensiva, in cui Lassini attacca soprattutto uno dei capi d'accusa che hanno portato in carcere Mantovani, il suo collaboratore Giacomo Di Capua e il funzionario dei lavori pubblici Angelo Bianchi. Si tratta dell'accusa di corruzione mossa per i favori che Mantovani avrebbe ricevuto dall'architetto Gianluca Parotti, ricompensato con alcuni incarichi pubblici. Ed è qui che la memoria di Lassini evidenzia quelle che, secondo la difesa, sono contraddizioni evidenti alle tesi dell'accusa.
Secondo il pm Giovanni Polizzi, Parotti avrebbe lavorato a lungo per Mantovani senza venire pagato, o ricevendo solo in minima parte il corrispettivo del lavoro svolto. Ma la difesa ha documentato come i lavori compiuti da Parotti a Villa Clerici abbiano come contraltare un contratto in cui la società titolare del seicentesco edificio cedeva per quarant'anni all'architetto i diritti di superficie su una vasta porzione dell'immobile, destinato a studio ed abitazione. Ebbene, Parotti avrebbe dovuto pagare oltre centomila euro che non ha mai versato. Questa, e non alcuni incarichi presso le Asl, sarebbe la contropartita per i lavori svolti. Per quanto riguarda le consulenze fornite da Parotti per l'abitazione personale di Mantovani ad Arconate, il difensore ha documentato nella sua memoria difensiva come in realtà Parotti sia stato pagato parecchio, circa 160mila euro, e come i pagamenti siano iniziati ben prima che la Guardia di finanza iniziasse su ordine della Procura a spulciare nella vicenda.
Insomma, partita aperta: il che
non impedisce che i gruppi di opposizione in consiglio regionale insistano sulle richieste di dimissioni dell'intera giunta di Roberto Maroni in seguito all'affare Mantovani. La mozione verrà discussa in aula dopodomani.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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