Nel momento in cui hanno vinto tutto, hanno iniziato a perdere tutto. Non è il successo che ha fatto montare la testa al M5s ma è l'insuccesso che gliel'ha fatta perdere. Sarà stato un anno bellissimo per Luigi Di Maio, ma gli ultimi mesi sono stati un tormento per lui e una vertigine per l'Italia. Si sono presi il balcone di Palazzo Chigi, ma da allora, i parlamentari del M5s, non sono riusciti a strappare un comune di rilievo, a conquistare una regione decisiva e superare l'alleato che pugnalano in consiglio e insultano sui giornali. Dalle elezioni regionali in Sardegna e Abruzzo, per il M5s è iniziato il cambiamento: i fedeli sono in fuga (- 40%) e i delusi si moltiplicano. Insoddisfatto da quei risultati, in una delle sue ultime dichiarazioni, Beppe Grillo se l'è presa perfino con gli abruzzesi e, se avesse potuto, gli avrebbe svuotato le tasche già «terremotate»: «Ci ridiano i 700mila euro che gli abbiamo donato». E però, che il clima fosse cambiato si è capito quando Alessandro Di Battista, a Di Martedi, anziché spaventare l'Europa ha compiuto l'impresa di spaventare gli elettori del M5s: «Oggi non applaudite. Applauditemi!». Insieme a Di Maio ha sposato la causa dei gilet gialli che tutto il mondo ormai conosce come canaglie. Da quel momento, Di Battista, si è rifugiato in falegnameria, poi in tipografia (curatore della saggistica per Fazi). Oggi non manca a nessuno.
La verità è che il più grande traguardo del M5s è finito per rivelarsi un magnifico fallimento. Il reddito di cittadinanza non è stato la misura che ha abolito la povertà ma un incentivo al disordine pubblico. Ad Afragola, in provincia di Napoli, nel cuore del disagio, oltre 200 uomini, schiumanti rabbia, hanno riempito di sputi i funzionari lamentandosi che la somma fosse bassa. Appena entrato a regime, a fare notizia non sono stati i benefici ma i tentativi sempre più numerosi di rifiutarlo. Per arginare il protagonismo della Lega, Di Maio ha cambiato vestiti. Prima ha indossato «la felpa» poi ha iniziato a usare una lingua da spogliatoio: «Sfigato»; «Basta stronzate». E a pensarci, anche i loro visi sono cambiati. Con un ghigno, come quello che rimproverano a Salvini, la prima linea del M5s, a Ivrea, ha cacciato (editto?) il garante della Privacy colpevole di aver multato la piattaforma, fallata, Rousseau di Davide Casaleggio. È lo stesso trattamento che il M5s non ha potuto ancora praticare nei confronti del ministro dell'Economia, Giovanni Tria, colpevole di aver provato a disinnescare le sue fantasie contabili e avere annunciato il necessario aumento dell'Iva. Il M5s è scivolato sui conti e ha provocato una voragine di 23 miliardi di euro che già terrorizza i mercati.
Ma è stata una delle più importanti figuracce anche quel decreto famiglia che Di Maio si era cucito per esibirlo in campagna elettorale e che però, sempre Tria, ha scucito perché «le coperture non sono state individuate». Per recuperare l'identità, il M5s ha ingaggiato una campagna feroce contro il sottosegretario leghista Armando Siri. Siri è stato dimissionato da Conte ma il giustizialismo del M5s inquieta gli italiani che faticano e i miti che rimangono garantisti. In questi due mesi di pena, sul M5s aleggia infatti un fantasma chiuso in una cella di Roma. È quello di Marcello De Vito, il primo esponente arrestato del M5s, che non si dimette da presidente del consiglio capitolino e che anzi scrive le sue lettere dal carcere, promette nuove verità, compone memoriali, accusa Di Maio: «Abbiamo perso i valori fondanti». Mai il M5s era stato più solo di oggi, mai questi uomini nuovi erano apparsi più vecchi dei vecchi.
Beppe Grillo non vuole infatti più sentirli («Mi sono spostato»), mentre Casaleggio chiama i deputati ma solo per farsi versare le quote (non pagate) della sua piattaforma. Sono così tornati all'antico: «Paraculo»; «Stronzate» Ma questa volta l'insulto serve solo a scongiurare il fischio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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