Dalle trincee al commercio: così Trump cambia la guerra

Snobba la geopolitica tradizionale e sfida Europa e Cina sui temi economici. Le resistenze nella Casa Bianca

Dalle trincee al commercio: così Trump cambia la guerra

Il Donald Trump che annuncia il ritiro delle truppe americane dalla Siria e un prossimo disimpegno dall'Afghanistan non fa che dimostrare tutto il peggio che - almeno qui in Occidente: a Mosca invece sono contentissimi - si è sempre temuto di lui. L'attuale uomo della Casa Bianca è un presidente monodimensionale, la cui competenza - o per meglio dire, il campo d'interesse - si riduce all'ambito dell'economia. Aspetto d'importanza fondamentale, si capisce, ma far dipendere le scelte strategiche complessive di un Paese speciale come gli Stati Uniti dal solo ambito economico è indice di una drammatica mancanza di visione. Che nel caso di Trump discende da una drammatica carenza culturale.

Gli Stati Uniti d'America non sono un Paese qualsiasi: nonostante una relativa decadenza sono tuttora l'unica superpotenza mondiale, e questo porta con sé l'inevitabile assunzione di importanti responsabilità geopolitiche e militari. Ma per il presidente-tycoon la gestione dello scacchiere geopolitico internazionale - e magari il rispetto dei suoi alleati - non è soltanto qualcosa che sta il di sopra delle sue personali capacità (per ovviare a questo potrebbe affidarsi a competenti consiglieri che nei think tank del suo Paese certo non mancano): il suo problema è la genuina convinzione che applicarvisi non valga lo sforzo.

Quando blatera di «America First» e ripete lo slogan «Make America Great Again», Trump ha in mente una cosa sola: soddisfare le aspettative del suo elettorato del ceto medio depauperato e dell'America profonda, che gli chiede la salvaguardia dei posti di lavoro e che è sensibile a richiami patriottici non importa quanto confusi e contraddittori. Da qui le roboanti sparate retoriche (solo per fare qualche esempio) contro l'Iran e a favore di Israele, salvo poi mollare gli ormeggi in Siria; la sceneggiata dell'intesa personale con il furbo dittatorello della Corea del Nord, che non ha fin qui smantellato un missile che sia uno; la promessa grottesca di far pagare al Messico il muro di tremila chilometri che lui intende costruire per fermare al confine qualche migliaio di disgraziati latinos. E al tempo stesso, il cambiamento radicale dello scenario in cui gli Stati Uniti sostengono le loro battaglie: non più fronti militari tradizionali, ma guerre commerciali combattute a colpi di dazi e negoziati à-la-Trump.

Bersaglio favorito di queste guerre 4.0 è naturalmente la Cina, che di colpe ne ha effettivamente non poche: ma Trump, fedele alla sua visione limitata, preferisce concentrarsi sulle politiche di Pechino che hanno avuto come ricaduta la perdita di posti di lavoro negli States. Il resto è secondario, anche se non viene completamente ignorato come testimonia la presenza militare Usa nel Mar Cinese Meridionale che Xi Jinping pretende a torto che sia considerato cosa sua. Gli altri nemici di queste guerre - e questa è la colpa peggiore di Trump - sono i suoi stessi alleati, gli europei per primi: fatti oggetto senza alcun riguardo di vessazioni commerciali, e richiamati come scolaretti al pagamento delle tasse arretrate. E qui lo stile è sostanza, anche se Trump ha qualche buona ragione dalla sua.

Il presidente-tycoon, purtroppo, è uno che non sente ragioni, che agisce troppo spesso d'impulso e che fa disperare i suoi collaboratori che ne temono la superficialità e

l'incompetenza. Alcuni - Mattis è l'ultimo della lista - hanno preferito dimettersi, molti altri sono stati cacciati. Come ai «bei tempi» di The Apprentice, quelli del Trump più autentico. Ma la Casa Bianca non è un set televisivo.

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