Magistratura

Davigo ko anche in Appello. Condanna a 1 anno e 3 mesi

Davvero può dirsi risolta così, con la condanna quasi definitiva di Piercamillo Davigo, l'incredibile storia dei verbali segreti del falso "pentito" Piero Amara

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Davvero può dirsi risolta così, con la condanna quasi definitiva di Piercamillo Davigo, l'incredibile storia dei verbali segreti del falso «pentito» Piero Amara arrivati dalla procura di Milano alle mani del famoso pm di Mani Pulite, e da lui medesimo e dalla sua segretaria divulgati a colleghi, politici, giornalisti?

Ieri la Corte d'appello di Brescia conferma la condanna di Davigo a un anno e tre mesi di carcere per violazione del segreto d'ufficio, e ormai solo i giudici della Cassazione possono evitare all'illustre ex collega di precipitare nell'abisso in cui mai avrebbe pensato di finire: il girone dei pregiudicati. «Davigo è innocente, faremo ricorso», promette il suo avvocato Davide Steccanella. Ma intanto l'abisso è lì, ad un passo, pronto a inghiottire il Dottor Sottile di Mani Pulite, il vero autore dei sillogismi giuridici senza di cui i processi a Tangentopoli non sarebbero mai arrivati al traguardo. Poi Davigo fece carriera: giudice di Cassazione, presidente di sezione, leader dell'Associazione nazionale magistrati, membro del Consiglio superiore della magistratura. Ora arriva l'imprevisto, come in quei crudeli giochi da tavolo che ti spedivano in prigione senza passare dal via.

Cosa ha accertato il processo bresciano? Fatti incontrovertibili: che il pm milanese Paolo Storari, convinto che i suoi capi volessero insabbiare le rivelazioni di Amara sulla presunta loggia Ungheria, andò a casa di Davigo, e questi - dopo avere saputo che i verbali inguaiavano anche il suo collega e arcinemico Sebastiano Ardita, indicato da Amara come iscritto alla loggia - si scatenò avvisando mezzo mondo, fino su su al Quirinale. Poteva farlo, non poteva farlo? «Ero membro del Csm e quindi era mio diritto», dice Davigo. Manco per niente, disse l'anno scorso la sentenza di primo grado, confermata ieri: le «modalità carbonare», le violazioni di ogni procedura, raccontano per il tribunale di Brescia un'operazione parallela in cui Davigo «lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura» avrebbe usato quelle carte per regolare i conti con Ardita.

Fin qui potrebbe essere la storia malinconica di un potente sul viale del tramonto, che non si rassegna ad andare in pensione e a mollare il posto al Csm, e che per questo si mette nei guai. Ma la stessa sentenza che un anno fa condannò Davigo lascia socchiusa la porta a verità più complicate, a scenari più complessi sui meccanismi interni alla magistratura. Per pura coincidenza, la condanna-bis di Davigo arriva nei giorni in cui l'inchiesta della procura di Perugia sui dossieraggi alza altri veli sulle sconcertanti vicende interne a un altro ufficio giudiziario di grande delicatezza, la Procura nazionale antimafia. Storie diverse, ma ingredienti simili: segreti violati, faide tra colleghi, furie moralizzatrici, giornalisti al seguito.

Nella sentenza di primo grado ai danni di Davigo si poneva il dubbio «se quella del sostituto (ovvero di Storari, ndr) sia stata davvero un'iniziativa self made o non vi sia stato, invece, un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Più di un elemento sembra infatti dire che Davigo sapeva dei verbali di Amara prima che Storari, nella sua lotta scomposta contro il presunto insabbiamento dell'inchiesta, gliene portasse a casa la brutta copia.

Entrambi - Storari e Davigo, il pm furibondo e il vecchio inquisitore - potrebbero essere stati strumenti di altri. Ma di chi?

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