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Davigo a processo per le rivelazioni sul caso Amara nell'anniversario di Tangentopoli

Un processo con un solo imputato ma con una sfilza di testimoni tale da trasformarlo in un docu-movie sul reale funzionamento della giustizia italiana.

Davigo a processo per le rivelazioni sul caso Amara nell'anniversario di Tangentopoli

Un processo con un solo imputato ma con una sfilza di testimoni tale da trasformarlo in un docu-movie sul reale funzionamento della giustizia italiana. L'imputato si chiama Piercamillo Davigo, ex Dottor Sottile della Procura di Milano, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, ex giudice di Cassazione: che ieri, proprio nel trentesimo anniversario dell'indagine Mani Pulite, viene rinviato a giudizio per rivelazione di segreti d'ufficio. E i testimoni sono quelli che Davigo - deciso a «difendersi fortemente» secondo il suo legale Francesco Borasi - si prepara a citare in aula per dimostrare di non avere commesso alcun reato nel ricevere e divulgare i verbali del «pentito» Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

E qui la cosa si fa interessante, perché la linea difensiva di Davigo rischia di chiamare in causa una lunga serie di personaggi eccellenti: dai magistrati di Milano, a partire dal suo collega ed ex amico Francesco Greco, fino ai vertici della Cassazione e del Csm che potrebbero spiegare quanto e come sapessero delle rivelazioni di Amara già prima che il pm milanese Paolo Storari, logorato dai timori di insabbiamento, passasse a Davigo i verbali sulla «loggia Ungheria».

«Non staremo qui a girare la minestrina», è la linea della difesa di Davigo: modo un po' bersaniano per dire che l'ex pm intende combattere fino alla fine, costi quel che costi. Nella impostazione dell'accusa il «Dottor Sottile» è colpevole di un doppio ruolo, di una doppia violazione della legge: prima convince Storari a violare il segreto, garantendogli che la consegna è legittima; poi provvede personalmente a divulgare le carte a Roma, o comunque a renderne noto il contenuto. A queste accuse la tesi difensiva di fondo è che essendo all'epoca ancora membro del Csm, Davigo aveva il diritto di ricevere i verbali dell'inchiesta milanese che tiravano in ballo, come presunti membri della loggia, altri appartenenti al Consiglio superiore. E che il metodo assai informale scelto da Davigo e Storari, il passaggio brevi manu della brutta copia dei verbali, si giustificasse proprio con la delicatezza della situazione.

La sostanza, insomma, doveva prevalere sulla forma. Peccato che questo faccia a pugni con l'applicazione rigorosa e letterale del Codice penale di cui Davigo è stato per decenni protagonista, e che ora rischia di ritorcersi contro di lui. Allo stesso modo in cui la famosa battuta «non esistono innocenti ma colpevoli che l'hanno fatto franca» riecheggia ora che ad essere imputato è il suo autore: che ieri, colto a margine di un convegno dalla notizia del rinvio a giudizio, dice proprio così: «Sono sotto processo ma sono innocente».

Davigo sa di non avere, in questo frangente difficile, molti alleati. I suoi ex compagni di corrente lo hanno abbandonato da tempo, con gli amici del pool non si parla più, persino Gherardo Colombo - che all'epoca di Tangentopoli faceva con lui quasi coppia fissa - ieri, braccato dai cronisti al dibattito sul trentennale di Mani Pulite, non sgancia mezza parola di sostegno. Davigo è solo. Anche il pm Storari, imputato insieme a lui, ha separato il suo destino processuale, chiedendo il rito abbreviato un po' per limitare i danni, un po' per non essere trascinato nell'aula del processo mediatico che Davigo vuole mettere in scena. Già nel corso dell'udienza preliminare aveva chiesto che venissero ammesse in aula le telecamere, il giudice aveva detto di no. Ma il 20 aprile, quando inizierà il processo vero e proprio, sarà ben difficile lasciare i media fuori dall'aula.

Davigo non ha molto da perdere. La sua carriera è finita, il reato che gli viene contestato è punito blandamente, da sei mesi a tre anni. E comunque, come tiene lui stesso a sottolineare ieri, in caso di condanna non andrà in carcere: «non ho alcuna preoccupazione perché ho compiuto 70 anni e quindi resterei a casa». Ma a essere evidente è che Davigo non ha intenzione di incassare senza combattere una condanna che segnerebbe comunque la fine ingloriosa di una carriera grondante successi. E se per combattere dovrà trascinare sotto i riflettori il sistema di cui lui stesso ha fatto parte per quarant'anni, amen.

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