Dispetti e veti, l'autogol dei sovranisti in fuga

Quando al traguardo si arriva staccati di un'ora, coi crampi alle gambe, mentre gli altri già sciabolano lo champagne, è evidente che qualcosa nella gestione della gara non ha funzionato

Dispetti e veti, l'autogol dei sovranisti in fuga

Quando al traguardo si arriva staccati di un'ora, coi crampi alle gambe, mentre gli altri già sciabolano lo champagne, è evidente che qualcosa nella gestione della gara non ha funzionato. Tattica o condizione, carenza di strategia o di talento. Di sicuro quasi mai è solo colpa della sfortuna, e anche il caso del centrodestra a queste Comunali non fa eccezione.

Al netto degli scandali Morisi e Fidanza, la sensazione è infatti che i pessimi risultati dell'alleanza moderata siano frutto di una selezione dei candidati travagliata, fuori tempo massimo e incagliata tra ripicche, veti incrociati e antipatie personali soprattutto fra le due anime sovraniste della coalizione, in lotta fratricida per il primato relativo.

Qualche dato: la Raggi si è ricandidata ad agosto 2020, Calenda ad ottobre, Sala a dicembre; Michetti, Bernardo e Maresca solo a giugno di quest'anno, Battistini a Bologna addirittura a luglio. Ma in politica come nella vita, più passa il tempo e più il ventaglio di scelte si restringe e le preclusioni si moltiplicano. E di mese in mese le posizioni di Forza Italia, Fdi e Lega si sono irrigidite, eliminando potenziali candidati in serie per logiche di bottega. Solo a Milano si è passati da Rasia ad Albertini, poi ritiratosi a sorpresa; è balenato Lupi, è passato come una cometa de Montigny e infine è apparso Bernardo, messo in mezzo a una campagna elettorale nervosa e spiacevole di comizi separati, commenti sprezzanti sottovoce e incontri mancati. Sei mesi non per ponderare il nome migliore, ma per bloccare i nomi degli altri, così come successo a Bologna. Il risultato? Alleanza logorata, scelte al ribasso e sinistra vincente al primo turno con il 60%. Leggermente diverso il discorso a Roma: Michetti qui è in vantaggio al primo turno, certo, ma rischia di finire stritolato al ballottaggio dalla tenaglia giallorossa. E rimane il dubbio che una figura considerata meno legata a un partito (Bertolaso, ad esempio?) avrebbe potuto attirare anche quella parte cospicua di voti finiti a Calenda, che non a caso lo ha sempre pubblicamente stimato.

Insomma, per rimanere in metafora ciclistica, si possono immaginare Meloni e Salvini in fuga in una grande classica. Il tracciato li agevola, poiché da sempre le crisi economiche - e la pandemia eccome se lo è stata - aiutano gli sfidanti e non gli amministratori in carica. I due filano via bene, guadagnano terreno, staccano tutti. Ed è lì che, sentendosi sicuri, cominciano a marcarsi a vicenda, preoccupati solo di battere il compagno nella volata verso Palazzo Chigi. Il favorito Salvini sbaglia una salita, l'ex gregaria Meloni sembra averne di più, si spintonano a bordo strada. I primi screzi con le manifestazioni di piazza concorrenti contro il governo Conte, il 2 giugno 2020. Poi una serie di dispetti e stoccate, la faida del Copasir e quella della Vigilanza Rai. Troppa polvere per nasconderla sotto il tappeto di una photo-opportunity sorridente nel comizio finale, o per lavarla via con le lacrime di coccodrillo post-voto. Abbastanza per far disamorare il pubblico.

Per rubarsi un metro a vicenda, sono finiti rimontati e sorpassati dagli inseguitori, il «gruppone» anti-destre.

Oggi, nel processo alla tappa, tra le recriminazioni e l'esame di coscienza collettivo, l'auspicio è che tutto questo sia di lezione. Perché per vincere il giro d'Italia delle Politiche servirà ben altro spirito.

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