Cronache

Il disprezzo non si vince con il solito buonismo

Ciao, Seid. Sono io, sono quello che non ti ha salvato. Uno dei tanti. Ma io parlo per me. Avevi un cespo di capelli e un sorriso sconsolato.

Il disprezzo non si vince con il solito buonismo

Ciao, Seid. Sono io, sono quello che non ti ha salvato. Uno dei tanti. Ma io parlo per me.

Avevi un cespo di capelli e un sorriso sconsolato. Portavi sulle tue spalle di ex calciatore gracilino un peso troppo grande per chiunque figuriamoci per te, quello «degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti» di chi non voleva avere a che fare con te, come scrivevi due anni e mezzo fa in quella lettera che ci appare come un testamento precoce e fin troppo perfetto, giornalisticamente parlando. Avevi già ripiegato il sogno di andare in serie A, facevi il fenomeno nelle partite di calcetto con gli amici, ma non era quello il problema, quando calci il pallone e fai gol il colore della tua pelle non conta più, non siamo mai razzisti con chi ci fa vincere una partita, mentre quando porti le pizze ai tavoli nemmeno la margherita più buona ti salva dalla stupidità altrui.

Chissà se poi sei morto di razzismo come in tanti si sono affrettati a dire. Per la tua famiglia no. Ma era tutto troppo bello. Una rete a porta vuota, di quelli che avresti segnato anche tu, centrocampista senza troppa confidenza con il gol. E ora in tanti ti chiedono scusa con la coda di paglia in fiamme. Alcuni sono calciatori famosi, hanno giocato con te quando eri alle giovanili del Milan. Ma loro la fanno facile, sono stelle affermate, bianche di pelle e di pensiero, sono là che decidono se accontentarsi di un ingaggio da otto milioni l'anno o puntare a prenderne dieci. Altri sono politici e quelli che altro devono fare se non trasformare ogni storia in uno slogan, ogni nome in uno striscione.

In tanti ti chiedono scusa e dicono che noi, gli «altri», facciamo schifo. E lo facciamo, che c'entra. Anche io faccio schifo. Ci giriamo dall'altra parte, fingiamo di non sentire, poi alla prima occasione ci lanciamo in predicozzi indignati. Non siamo un Paese per quelli come te, ma non siamo un Paese per tante cose. Perfino tu ammettevi che per farti accettare dagli amici «con un'aria troneggiante» (che parola comicamente sbilenca), facevi battute contro i neri, perché tu non ti sentivi un immigrato, eri uno adottato, non eri arrivato qui su un gommone, e lo avresti gridato, facendo il gioco di chi ti guardava storto.

Seid, in tanti ora ti chiedono scusa, ma a te che cosa importa? Davvero, che te ne fai ora del nostro strapparci le vesti, della nostra vergogna a favore di taccuino? Questa è compassione e tu non volevi questo prodotto di scarto dell'affetto, tu volevi essere amato davvero e da tutti, come quando eri bambino e ricevevi secchiate di «gioia, rispetto e curiosità». Questo è perbenismo e le persone per bene stanno dalla stessa parte della barricata delle persone per male. Il disprezzo di chi ti accusava di rubare il lavoro agli italiani va a braccetto con il patetismo da quattro euro di chi nemmeno sapeva che tu esistessi ma ora ti vuole testimonial del buonismo, che è un altro sottoprodotto, della bontà. L'umanità non è una mansione politica, l'accoglienza un tanto al chilo che ora tutti sbandiereranno non è la soluzione più di quanto non sia la causa di quello che forse non ti ha ucciso ma di certo ha fatto sterzare la tua vita dall'idillio all'inferno, dall'abbraccio al disprezzo.

Che la terra ti sia lieve, centrocampista triste.

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