«Ho conosciuto la decisione al momento della comunicazione ai mercati, perché i responsabili della banca hanno ritenuto credo correttamente, data la mia posizione e la mia storia di non coinvolgermi in alcun modo nella decisione». Il presidente emerito di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, ieri ha voluto chiarire di non essere stato preventivamente interpellato sull'offerta di scambio su Ubi. E forse non avrebbe potuto essere altrimenti considerato che i due soggetti coinvolti nell'operazione possono considerarsi se non consustanziali quantomeno derivati del pensiero e delle opere dell'ottantasettenne avvocato bresciano.
E anche se ancora non è stata scritta l'ultima parola, si può dire che una lunga epoca della finanza italiana volga al crepuscolo proprio tramite le nozze dei due poli bancari che Bazoli aveva curato vuoi direttamente, vuoi attrverso la rete bresciana di relazioni professionali e industriali. Una Götterdammerung che consegna ai posteri il settimo gruppo bancario europeo per dimensione dell'attivo, ma che pone le sue radici in due distinti momenti di crisi del capitalismo italiano. Il primo è quello del 1982 quando il ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, chiamò al capezzale del fallito Banco Ambrosiano di Roberto Calvi un fino ad allora poco conosciuto avvocato bresciano docente della Cattolica: Giovanni Bazoli. La scelta, avallata dall'allora governatore Carlo Azeglio Ciampi, fu dettata dalla necessità di sottrarre al polo laico della finanza, incarnato dal dominus di Mediobanca Enrico Cuccia, una possibile preda che al suo interno aveva un tesoro più prezioso: il controllo del Corriere della Sera. Bazoli interpretò quel compito con acribia e creò in poco più di un ventennio un colosso bancario (per le dimensioni dell'epoca) inglobando la Banca Cattolica del Veneto, la Cariplo (ove si cementò la relazione con il presidente dell'omonima fondazione Giuseppe Guzzetti) e poi la Comit, una delle tre banche di interesse nazionale, «sottraendola» proprio alla sfera d'influenza di Cuccia.
Il secondo momento di crisi latente giunge nel 2006. Il vecchio capitalismo di relazione esce con le ossa rotte dai falliti tentativi di scalata ad Antonveneta e a Bnl. L'allora governatore Mario Draghi incoraggia una serie di fusioni per non consegnare il sistema finanziario italiano ai colossi stranieri. Nascono così Intesa Sanpaolo sull'asse Milano-Torino e la nuova Unicredit che ingloba la romana Capitalia. Nasce così anche Ubi Banca, una mossa difensiva che mette assieme due rivali tradizionali: i bergamaschi di Bpu e i bresciani di Banca Lombarda, industriali e professionisti riuniti proprio attorno all'avvocato Bazoli, per i quali Ubi è stata ed è la «loro» banca.
«La mia forza è il distacco. Sono un banchiere per caso che ha cercato di operare per il bene comune», disse una volta l'avvocato di se stesso. Banchiere di «sistema» come l'alter ego Enrico Cuccia, esponente di una finanza nella quale il sostegno di una banca si misurava con l'acquisizione di una quota di capitale della società affidata e, dunque, con una limitazione di sovranità del cliente rispetto al banchiere.
È, come detto, il capitalismo di relazione italiano, quello che ha gestito tante situazioni emergenziali. Ma, nel caso di Bazoli, con ben precise venature etiche e culturali. Al «professore» ora non resta che godere il frutto della propria opera.
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