
Sembra che tutta l'opinione convenzionale dell'élite chiacchierona americana si condensi e venga stampata, una volta a settimana, sulle pagine del New Yorker. In tempi normali questo processo produce anche buona scrittura e ottimo giornalismo. In certi periodi, persino lavori magnifici. Ma non viviamo tempi normali da almeno un decennio. E le opinioni dominanti di quella classe parlante oscillano dal delirio idealista alla febbre razziale, e oltre.
L'ultima illustrazione di questa deriva è un saggio firmato da Doreen St. Félix, redattrice del New Yorker, che ha dedicato un pezzo velenoso alla star bionda Sydney Sweeney. Secondo la St. Felix, l'attrice rappresenterebbe per alcuni fan una sorta di "principessa ariana", con il seno discusso in contrasto "con la fame di culo dell'uomo nero". Non è più il New Yorker di una volta, è qualcos'altro. Cos'è, esattamente?
Da almeno dieci anni, la rivista come molte altre è salita sul carro della "diversità e inclusione", dichiarandosi istituzione "antirazzista". Condé Nast, il gruppo editoriale, ha fissato quote razziali nelle assunzioni e promesso di "parlare di razzismo" in ogni occasione. Una capitolazione vera e propria alle ideologie del "critical race thinking". È in questo clima che ha trovato spazio una penna come la St. Félix, scelta non solo per "rappresentare" un certo gruppo demografico ma anche per incarnare un certo tipo di opinione.
Il problema è che dietro il suo saggio c'è un passato di odio. Dopo la pubblicazione, un collega mi ha segnalato un suo post su X: "Odio gli uomini bianchi". Ho fatto una ricerca: "white men", "white people". È venuto fuori un pozzo nero di frasi come: "La bianchezza mi riempie di odio", "La bianchezza deve essere abolita", "Il terrorismo bianco è una frase ridondante", "La mancanza di igiene dei bianchi ha causato la peste bubbonica, la sifilide, i pidocchi". E ancora: "È ingannevole quando i bianchi invocano l'Olocausto"; "I bianchi tirano fuori l'Olocausto o l'11 settembre per fingere un fardello psichico razziale".
Questi post risalgono a un decennio fa, poco dopo la laurea alla Brown University, e precedono di poco l'assunzione al New Yorker. Ma sono indicativi di una ideologia alla moda: nell'era di Black Lives Matter, il rancore contro i bianchi era diventato credenziale di carriera. Per la St. Félix, ha funzionato.
Ho pubblicato alcuni screenshot di quei post e si è scatenata la bufera mediatica: titoli sul Daily Mail, sul New York Post e altrove. Lei ha cancellato in fretta l'account X, mentre il New Yorker ha bloccato ogni mia interazione con i suoi contenuti, scelta insolita per una testata nazionale.
Il caso St. Félix pone una domanda cruciale, che il critico sociale Wesley Yang ha riassunto così: "Deve esserci un unico standard di civiltà, decenza e onestà che escluda questo veleno razziale dal discorso pubblico, o continueremo a tollerarlo solo perché è diretto contro i bianchi?".
Già, perché le pubblicazioni come il New Yorker hanno sbandierato a lungo l'aureola dell'"antirazzismo". Ma con un'eccezione, ormai evidente: quella che riguarda bianchi ed ebrei, bollati come "oppressori ingannevoli" in un linguaggio che ricorda la Nation of Islam di Farrakhan, maestro di odio mai nascosto.
C'è chi chiede le scuse pubbliche della St. Félix, o il suo licenziamento. Io penso che la reazione migliore sia il silenzio. Accettare la realtà: l'intera premessa dell'era di Black Lives Matter non è mai stata l'antirazzismo. È sempre stata una frode, dall'inizio alla fine. Se il New Yorker tirasse dritto senza dire nulla, almeno non dovremmo più fingere, né delegare la nostra coscienza morale a riviste, manifesti DEI e a tutto quell'edificio marcio.
La "resa dei conti razziale" che ha prodotto scrittrici come St. Félix non serviva ad aiutare le minoranze. Serviva a punire la maggioranza.
Tutta la retorica dell'ultimo decennio era vuota, utile solo a grifoni e opportunisti che ci hanno costruito sopra carriere e patrimoni.Ecco perché, paradossalmente, Doreen St. Félix non merita condanna, ma ringraziamento. Ha svelato la verità per quello che è.