Roma - Settanta moschee, con venti imam che vanno e vengono dal carcere e libera circolazione nelle sezioni, col rischio di contatti tra affiliati all'Isis e futuri terroristi, rigorosamente da radicalizzare: è questa la situazione delle carceri italiane, secondo l'allarme lanciato dal Sappe (sindacato autonomo di polizia penitenziaria). E gli agenti, ora, come annunciato dal segretario generale Donato Capece, scendono sul piede di guerra.
Capece, ma davvero ci sono settanta moschee nelle carceri italiane?
«Sì e ci sono venti imam che entrano ed escono proprio come lo fanno i parroci. E che si vanno ad aggiungere ai 150 imam, che io credo siano tutti autoproclamati, che sono negli istituti di detenzione a scontare una pena».
Perché questa cosa desta tanta preoccupazione?
«Perché, secondo un allarme già lanciato dal governo, è proprio in carcere che avviene la radicalizzazione. Oggi il sistema di vigilanza è aperto e dinamico. Tutti sono liberi di girare in sezione dalla mattina alle 8 fino alla sera alle 17 e questo ha fatto sì che fosse tolta la figura dell'agente di sezione, che andava a controllare di tanto in tanto con delle pattuglie. Il problema, però, rimane perché i detenuti, quando sono all'ozio nella sezione e quindi non fanno niente, non sono impiegati in attività di formazione o quant'altro e si sfogano aggredendo l'uomo in divisa o innescando risse. E, poi, è in questo modo che avvengono contatti tra presunti terroristi e gente comune, che viene indottrinata e diventa un rischio per il futuro».
Che cosa si può fare, quindi?
«Ricordiamoci dell'ultimo arresto a Ciampino di un presunto terrorista che era stato radicalizzato in carcere, ma ci sono diversi precedenti. I soggetti potenzialmente pericolosi vanno isolati, secondo noi e inviati alle colonie agricole come Pianosa e l'Asinara, dove, magari attraverso la collaborazione con gli imam, si potrebbe fare loro una deradicalizzazione e convincerli ad abbandonare la strada della violenza, visto che sono schegge impazzite e visto che, in carcere, per assurgere ad avere spessore e rispetto, abbracciano la fede islamica distorta e poi non ne possono più uscire. La nostra preoccupazione, come Sappe, è proprio che questi 400 super attenzionati, potenzialmente, possano diventare i tanti futuri terroristi di domani. Noi l'abbiamo detto più volte, ma l'amministrazione non ha mai voluto prendere in considerazione questo fenomeno. Siamo molto preoccupati».
Quali sono gli altri possibili rischi?
«Gli stessi detenuti hanno invocato più volte la presenza del poliziotto in sezione, perché la divisa, comunque, è un deterrente e scoraggia il soggetto che vuol compiere soprusi. Oggi i carcerati denunciano furti, violenza privata e quant'altro. Quindi, tutto è lasciato al libero arbitrio. Questo ha aumentato anche il rischio del suicidio in carcere. Essendo liberi di circolare, con le celle che rimangono aperte dalla mattina alla sera, chi si vuole uccidere si apparta e tenta il suicidio. Quando riusciamo li salviamo, ma quando non ci siamo è difficile».
Quali sono le difficoltà maggiori della Polizia penitenziaria?
«Sono quelle di trattare, osservare ed eventualmente attenzionare i soggetti pericolosi, in primis perché non riusciamo a capire la loro lingua. Non abbiamo una formazione adeguata per poter fare questo tipo di osservazione. Bisogna tener conto che molti di questi parlano l'arabo e l'arabo non è solo una lingua nazionale, ma è costituito da tanti dialetti che noi non conosciamo.
Se vogliamo fare prevenzione dobbiamo almeno capire queste persone: assumere gente che sappia la lingua o fare corsi di formazione ad hoc per permettere al personale di poter ascoltare e fare prevenzione. C'è poi il problema dei tagli del turnover. Siamo passati dalle 45mila unità del 2001, previste per legge, alle circa 38mila attuali. A questo si aggiunge il fatto che tanti agenti più anziani lasciano il servizio».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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