Accorciare i tempi della prescrizione, tuonano da sempre le correnti dei magistrati, è un regalo ai delinquenti. Ma c'è la storia di un processo recente che agita il dibattito interno alle chat delle toghe. Un processo dove alla prescrizione delle accuse si è arrivati non per l'ostruzionismo dei difensori ma per la lentezza con cui i pm hanno trascinato le indagini preliminari. Il fatto che quasi tutti questi pm siano esponenti in vista della più battagliera delle correnti organizzate, Magistratura democratica, non fa che acuire il paradosso.
Non si tratta di una inchiesta di poco conto. È l'indagine che esplode nel 2011 a Bari, operazione «Do ut des»: docenti universitari di Diritto in tutta Italia vengono accusati di associazione e delinquere e corruzione, i pm sostengono che dietro lo schermo di una prestigiosa associazione giuridica operasse una cupola in grado di truccare i concorsi universitari, spartendo posti a tutto spiano tra gli adepti dei baroni. Vengono incriminati nomi eccellenti. L'eco è enorme. Ma poi che fine fa, l'inchiesta bomba?
Le indagini della Procura di Bari sono iniziate nel 2008. Per arrivare al blitz, con perquisizioni e avvisi di garanzia, sono serviti tre anni. Poi i pm pugliesi impiegano altri tre anni per accorgersi di non essere competenti per territorio. L'associazione a delinquere ha iniziato a operare a Milano, le carte vengono trasmesse nel capoluogo lombardo. A firmare l'invio sono i pm baresi Francesca Romana Pirrelli e Renato Nitti. Entrambi scrivono sulla rivista di Magistratura democratica ed entrambi poco dopo fanno carriera: la Pirrelli diventa procuratore aggiunto a Foggia, Nitti procuratore a Trani. A una certa lentezza nella gestione dei fascicoli, bisogna dire, nella procura di Bari non è inedita: una inchiesta analoga sui concorsi per le cattedre di cardiologia ha impiegato otto anni per arrivare alla richiesta di rinvio a giudizio, per poi essere spezzettata in varie procure dove si è inabissata tra prescrizioni e assoluzioni. A condurla i pm Emanuele De Maria e Ciro Angelillis. Anche Angelillis è di Md e anche lui fa carriera, approdando alla procura generale della Cassazione.
Quando la mega inchiesta sulle cattedre di Diritto arriva a Milano, nel maggio 2014, sono già trascorsi sei anni, ma ci sarebbe ancora il tempo per evitare la prescrizione. Il pm che riceve il fascicolo è Luca Poniz, che nel novembre successivo notifica agli indagati l'invito a comparire. Luminari, professori, assistenti vengono interrogati e depositano memorie. Poi non accade più nulla. Per sei anni il fascicolo rimane fermo: eppure non è una inchiesta di poco conto, di quelle che possono ammuffire senza fare troppi danni. Dentro ci sono nomi di primo piano del mondo accademico, l'ex garante della Privacy, un ministro dell'attuale governo: che se innocenti avrebbero il diritto di non essere lasciati all'infinito nel limbo, e se colpevoli andrebbero portati a processo e condannati. Invece passano sei anni. Solo il 3 dicembre 2020 Poniz chiude l'indagine, chiedendo l'archiviazione di tutte le accuse. Il sistema delle nomine universitarie, scrive, è governato da un «pessimo costume» in un ambiente «spregiudicato e litigioso», ma non c'è traccia di corruzione né di associazioni criminali. Il 18 novembre il giudice preliminare gli dà torto. Per l'accusa di corruzione dovevano andare tutti a processo. Ma il reato è prescritto.
Durante i sei anni in cui il fascicolo è rimasto nel suo
ufficio, il pm Poniz è stato presidente dell'Associazione nazionale magistrati. In quella veste, il 13 gennaio 2020, proclamò che l'Anm si sarebbe opposta a qualunque sanzione disciplinare contro le «toghe ritardatarie».
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