Uno che si chiama Scordio non deve avere la memoria tra le sue virtù. E quindi può permettersi di trasformarsi, per pura dimenticanza, da paladino antimafia a «don» colluso con la cosca.
Don Edoardo Scordio, arrestato ieri nell'operazione della dda sul Cara di isola Capo Rizzuto trasformato in bancomat del clan Arena. è un settantenne occhialuto, dal sorriso timido ma contagioso. Un rosminiano convinto, superiore e parroco della Chiesa di Maria Assunta (altrimenti detta Ad Nives) a Isola Capo Rizzuto, a cui fu spedito esattamente quarant'anni fa dal profondo Nord con il compito di «ricostruire il tessuto sociale del territorio», come lui stesso raccontò a UnoMattina nell'ottobre del 2011. Uno che negli anni Ottanta, l'età dell'oro della criminalità organizzata, si dava da fare per guarire il suo territorio infetto dal virus della ndrangheta. Fiaccolate, omelie, prese di posizioni dure. Un curriculum specchiato che lo portò nel 2004 a licenziare un «decalogo della libertà dalla ndrangheta» che fece epoca. Tra gli articoli: rifiutare la regola dell'onore offeso da lavare con il sangue, evitare qualsiasi patto di sangue, non prestare il proprio nome per intestazioni fittizie. Il manualetto gli consentì anche di appuntarsi al petto la medaglia più pregiata, quella della vittima di un'intimidazione, un bell'ordigno piazzato davanti casa sua. Non esplose, ma il messaggio fu chiaro e ne fece una specie di apprendista martire. Leggete quello che scrisse di lui Avvenire nel non lontano 2011: «Nel 1977 arriva a Capo Rizzuto un rosminiano, padre Edoardo, che sceglie, con pericolo della vita, di sfidare platealmente la mafia anno dopo anno, mese dopo mese, per insegnare ai ragazzi che anche in Calabria si può crescere liberi. Egli fa capire che il sopruso e la violenza si possono combattere solo con una denuncia forte e decisa e continuato a farlo attraverso le sue omelie».
Un eroe. Un uomo. Un prete. Coraggioso. Che però non tutti amavano in quell'angolo di Calabria. Molti denunciavano le sue frequentazioni con i mammasantissima della zona, alcuni ricordavano quel funerale celebrato per Carmine Arena detto «Cicalu», assassinato nel 2004 a colpi di kalashnikov e di lanciarazzi Rpg7 da un commando di un clan rivale. Qualcuno andava indietro con la memoria fino al 1996 e alle nozze di Raffaella Arena, figlia del boss Nicola, finite invece che con il lancio del bouquet con un blitz dei carabinieri a caccia di latitanti tra gli invitati.
Altri trovavano quanto meno riprovevole che don Scordio avesse ricevuto nel solo 2007 ben 132mila euro dalla società di gestione del Cara come rimborso spese per servizi di «assistenza spirituale». Lo stipendio di un amministratore delegato della misericordia.
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