
Caro direttore, ti conosco da una vita e ti devo tutta la mia esistenza professionale (dal giorno in cui Massimo Fini ci presentò a L'Indipendente: io avevo 19 anni ed era il 1992). Da allora ti ho visto piangere, pagare le tredicesime a tutta la redazione quando l'editore del primo Libero si tolse la vita gettandosi nel porto di Rimini dopo l'11 settembre (era un tour operator), gioire poi per lo stesso Libero che divenne un fenomeno editoriale, darmi della «cretina» nel bel mezzo della redazione, una volta, per un errore che incontestabilmente avevo fatto, candidarmi, in seguito, per un premio del quale avrò sempre memoria e che andai a ritirare a Ischia insieme a mia mamma, perché avevo voglia che fosse lei, per prima, ad essere orgogliosa di me. E poi, di te, ricordo molto altro perché negli anni ti ho investito, volente o nolente, di un sacco di cose delle quali ho avuto soprattutto bisogno io. Di fatto sei stato un padre. Termine simbolico per chi non condivide un vero dna e quindi odioso e abusato tranne per chi, come me, è stata deficitaria del suo.
Non credo che tu ne abbia mai avuto voglia più di tanto, di figli veri ne avevi già abbastanza, ma penso che alla fine, in qualche modo, ti sia arreso alla mia fame paterna. Il giorno in cui ho partorito, il primo mazzo di fiori che è arrivato in clinica è stato il tuo, sei stato il mio testimone di nozze, e sei stata la prima telefonata che ho fatto quando è morto il mio papà vero. Questo per dire che ho avuto un osservatorio privilegiato sull'affettività insospettabile che difficilmente ti è stata riconosciuta perché difficilmente hai deciso di renderla visibile. Ma credevo, francamente, ormai, di avere in tasca il «bignami» dei fatti che hanno segnato la tua esistenza: dalla penna lasciata dalla vedova di Nutrizio alla tua precoce vedovanza, dai tuoi figli adorati ai giornali raccolti agonizzanti e rilanciati, dai cavalli, ai gatti, ai rari cani. Dalla Bonfanti, compagna di una vita, agli incontri indelebili: l'ultima minestrina con Raul Gardini o i battibecchi con lo stimatissimo Maurizio Costanzo o altre trecentomila cose che ti raccontano ma non bastano a descriverti. Però oggi parli della tua mamma (per la festa della mamma) e ricordo il giorno in cui è morta e ricordo te piegato come un chiodo picchiato storto nel muro. Il racconto delle donne della tua famiglia ha illuminato un nuovo cono d'ombra. Leggere che tua madre era la tua «regina» e che da bambino combattevi con i tuoi fratelli pur di tenerle la mano in passeggiata, o di come l'aspettavi di ritorno dal lavoro con «fame di lei» con un'ansia d'abbandono incontenibile, mi ha fatto venire in mente tante cose. Intanto il romanzo di un'autrice messicana che ho amato molto in gioventù. Si chiama Angeles Mastretta e il libro in questione (in realtà ne ha scritti tanti e tutti bellissimi) si intitola Donne dagli occhi grandi: ogni capitolo porta il nome di una delle sue zie, che non sono, ovviamente, tutte vere zie ma comunque signore straordinarie che ha scelto come parenti d'elezione. E mi hai fatto pensare alle sindromi abbandoniche che mi hanno trafitta da ragazzina, che per me sono tutte legate a mio padre perché mia madre, di contro, è sempre stata la grande costante, la grande certezza della mia vita. E anche quella alla quale, più tardi, da adulta, farle «pagare tutte» solo perché era lei quella che c'era.
Quando sono rimasta incinta di mio figlio, sedici anni fa, ricordo che nei confronti di mia madre mi è esplosa una tenerezza infinita, quella che meriterebbe sempre e che invece, via via, si è dissolta insieme agli ormoni. Eppure, in quei nove mesi, ho sentito netta la paura di averla ammalata di aspettative negate, di rabbie malriposte e di scelte sbagliate. E ancora oggi so, persino più che mai, che posto merita di occupare nella mia vita. Oggi che invece non comprendo affatto come sistemarmi, da madre a mia volta, nell'esistenza increspata di mio figlio adolescente. Tra scontri, abissi, silenzi, scambi arrabbiati e rari ritorni all'intesa più pura. Ogni tanto mi contesta e mi allontana in modi dai quali penso di non riuscire più a tornare. Ma quello tra madri e figli è, per fortuna, l'unico rapporto sentimentale al mondo in cui ogni volta che si dice «adesso basta» in realtà si ricomincia. Anche quando non so come essere ciò che gli serve. Anche quando non capisco come aiutarlo a diventare ciò che sarà.
Lavoro anch'io e torno tardi la sera e in ogni caso mi sento sempre in ritardo su tutto. Ma la cosa che temo di più, credo esattamente come la tua mamma, è di non essere all'altezza di quella donna che ogni figlio attende dietro alla finestra appannata pieno di ansia e aspettative.
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