Da un lato la Cina, che dichiara d'aver completato «con successo» le operazioni militari intorno all'isola di Taiwan. Dall'altra il governo di Taipei, che sostiene come in realtà Pechino stia preparando l'invasione per un cambio dello status quo sull'isola. A leggere a fondo il comunicato del Comando del teatro orientale delle forze armate cinesi si apprende effettivamente che le truppe del Dragone continueranno a svolgere addestramento e preparativi militari, con pattuglie pronte al combattimento e alla «difesa risoluta della sovranità nazionale e dell'integrità territoriale». Crisi tutt'altro che scongiurata, dunque. E prove di invasione sempre più alla luce del sole; certificate ieri dalle provocazioni politiche di Pechino.
La Cina ha rivendicato la sovranità su Taiwan definendo il governo del Dragone come «l'unico legittimato» a rappresentare entrambi i lati dello Stretto; dal punto di vista di Xi Jinping, «c'è una sola Cina al mondo, Taiwan è una parte inalienabile». È «l'intera Cina», ha chiarito il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino rispondendo al capo-diplomazia di Taiwan, Joseph Wu, che nega ogni forma di compromesso, cessione di sovranità o dialogo sui confini. «Le nostre misure sono pubbliche, appropriate e in linea con le leggi», insiste Pechino. E in tutta risposta ieri Taipei ha attivato i sistemi di difesa missilistica, alzato in cielo i caccia e allertato l'esercito. Non c'è infatti solo il mare. Oltre alle dieci navi da guerra, 45 aerei d'attacco cinesi sono stati rilevati ancora ieri attorno all'isola: otto caccia Su-30 e altri otto caccia J-16 avrebbero persino superato la linea mediana dello Stretto; un disegno sulle mappe, non ufficiale ma tradizionalmente rispettato. Pechino sembra non voler più tergiversare, perdersi in chiacchiere, e con maggiore fermezza ha chiarito di non riconoscere quella serpentina che finora ha tenuto lontano tre eserciti da un nuova guerra.
Dal 4 agosto si contavano «solo» un centinaio di sconfinamenti dell'Esercito di Liberazione. Poi le manovre militari, cominciate ufficialmente in rappresaglia alla visita a Taipei della speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi. «Andranno avanti», e da oggi e fino al 13 agosto saranno «con proiettili veri», è l'ultimo tuono nel bel mezzo di una tempesta espansionistica che dal fronte economico - con il blocco dei microchip di Taiwan, che Pechino accetta di far partire solo se vedrà apposto il marchio Made in China - si sta avvitando via via su un piano sempre più militare. Con Pelosi che annuncia: «Non permetteremo che la Cina isoli Taiwan».
Il ricorso alla forza per la riunificazione non è affatto da escludere. Specie leggendo un'altra dichiarazione in cui la Cina spiega come, per il regime comunista, la questione Taiwan sia «completamente diversa» da quella ucraina, e che siano piuttosto gli Stati Uniti a provocare problemi nello Stretto. Per il vice ministro degli Esteri Ma Zhaoxu, tutto rientra negli «affari interni cinesi, ma gli Usa sono abituati a guerre illegali...». Taiwan non ci sta. Definisce un «vano desiderio» i contenuti del libro bianco diffuso da Pechino sulla riunificazione pacifica seguendo il modello «un Paese, due sistemi», in cui Xi ipotizza spazi di «cooperazione» senza lasciare «alcun margine di manovra per azioni separatiste volte alla pseudo-indipendenza di Taiwan».
E ieri anche la presidente di Taipei, Tsai Ing-wen, ha alzato i toni: «La Cina ignora la realtà», lo scopo di Xi è «rivolgersi ai pochissimi partiti politici taiwanesi e alle persone che temono la Cina a causa delle sue intimidazioni per pochi incentivi economici». Pechino rilancia: «Normali esercitazioni», in acque che il bureau comunista considera però «territoriali».
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