Il delitto perfetto è (già) servito. E non c'è bisogno di scomodare Hitchcock né occulte trame spionistiche degne della celluloide. Il delitto perfetto ce lo serve la nostra lutulenta giustizia, elefantiaca, perennemente impantanata tra diritti, abusi e soprusi. Il risultato è la sclerosi. Delle verità, della legalità, financo delle coscienze.
Eccoci così a raccontare dell'ennesimo paradosso giudiziario all'italiana, di un caso, questo sì, in cui qualche toga dovrebbe essere chiamata a rispondere. La sintesi è questa: due persone sospettate d'omicidio, di certo almeno una colpevole, ma entrambe assolte.
Ora, a dieci anni di distanza, la magistratura cerca la catarsi. Un colpevole, qualcuno da sbattere al gabbio, finalmente, per «purgarsi» l'anima. Ricordate Matilda? Era una bimba di 23 mesi; morì in un giorno di luglio col fegato e un rene rotti da un calcio. In casa, in quel di Roasio (Vercelli) c'erano solo mamma e il suo nuovo compagno. Entrambi negarono, entrambi si accusarono. Ma non si riuscì mai a portarli in aula insieme. I loro destini giudiziari hanno sempre viaggiato su «convergenze parallele». Il che ha portato ad un'unica, nefasta, certezza. Quella di aver lasciato un assassino libero. Lei, Elena Romani, ex hostess all'epoca trentunenne, assolta in tre gradi di giudizio non potrà più venir processata. Resta dunque solo lui, il fidanzato bodyguard, Antonio Cangialosi. Adesso la Cassazione ha accolto il ricorso degli avvocati della donna contro il non luogo a procedere nei suoi confronti. Il fascicolo tornerà quindi in tribunale a Vercelli, dove sarà affidato a un nuovo giudice.
La cronaca racconta che quel giorno- era il 2 luglio 2005- la coppia - dopo aver pranzato da dei vicini era rientrata in casa. La piccina messa a dormire sul letto matrimoniale, i due seduti in soggiorno, lì si sarebbero addormentati. Fu il pianto di Matilda a svegliare la madre: aveva vomitato. Lei la lavò, poi pulì federa e coprimaterasso e andò a stenderli mentre il compagno rimaneva solo con Matilda. A questo punto il «buco nero». La piccina stava male, fu Cangialosi a chiamare un'ambulanza. Ma chi e quando aveva picchiato la bimba? La mamma, in un sussulto d'ira, o lui, che non ne era il padre, magari infastidito dall'«ingombrante» presenza? I due vennero indagati. Ma gli indizi contro la donna non ressero: Elena Romani fu prosciolta, il giudice d'appello, Alberto Oggè, non solo confermò l'assoluzione, ma indicò in Cangialosi l'autore di un gesto «insensato e feroce»: il «gorilla» che, secondo il magistrato, non amava quella bimba non sua, una volta rimasto solo le avrebbe posato un piede sulla schiena, premendo fino a procurarle lesioni irreparabili. E così, mentre la hostess usciva di scena, il suo fidanzato - che pure era già stato prosciolto una prima volta - ha dovuto fronteggiare una nuova inchiesta. Fino al non luogo a procedere dello scorso 3 giugno, su cui con ogni probabilità sono stati decisivi i risultati dell'ultima perizia, che non ha confermato la ricostruzione del giudice Oggè.
Adesso il colpo di scena. Per la Cassazione quel trauma venne prodotto «durante l'assenza dall'abitazione della Romani, uscita nel cortile per stendere il cuscino lavato».La giustizia si riduce a questo: se non è zuppa è pan bagnato.
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