Dustin Hoffman choc: "I miei parenti ebrei uccisi dai comunisti"

Nel corso di uno show, il premio Oscar ha scoperto il tragico passato della sua famiglia ucraina, vittima della polizia sovietica e dei gulag

Dustin Hoffman choc: "I miei parenti ebrei uccisi dai comunisti"

«Questa è una storia terribile, non è una bella cosa da raccontare ai bambini...». Sarà anche per questo che Dustin Hoffman ha dovuto aspettare fino a 78 anni, per scoprire la verità sulla storia della sua famiglia. Su quel nonno e quei bisnonni di cui suo padre Harry non gli aveva mai parlato, sui quali aveva come eretto un muro. Dietro quel muro c'era la tragedia di un popolo e di un mondo, e anche di una famiglia intera e di un ragazzo in particolare: perché il nonno Frank e il bisnonno Sam Hoffman sono stati sterminati in Russia, anzi in Unione Sovietica, nei primi anni dopo la Rivoluzione; e la bisnonna, Libba, è stata imprigionata in un gulag per cinque anni, prima di riuscire a fuggire e arrivare sull'altra sponda dell'oceano, prima in Argentina e poi, finalmente, a Ellis Island. Era il 1930, Libba Hoffman aveva già 62 anni. I referti medici dicono: affetta da «demenza senile». La donna aveva perso il braccio sinistro, era quasi cieca. Era sopravvissuta a un campo di sterminio, di quelli che servivano a punire i nemici della Rivoluzione. Perché i signori Hoffman erano ebrei. Oggi Hoffman lo dice: «Sono ebreo.. Sì, sono ebreo».

Ha scoperto tutto grazie a una trasmissione televisiva della Pbs, Finding Your Roots, letteralmente «Scoprendo le tue radici». Ed è stato in diretta, l'altra sera, mentre il conduttore Henry Louis Gates Jr gli raccontava che cosa avevano scoperto sulla sua bisnonna coraggiosa e indistruttibile, che l'attore si è messo a piangere: «Loro sono sopravvissuti perché io fossi qui». La bisnonna Libba era, semplicemente, «un'eroina». Una donna che a 53 anni aveva visto sparire, nel giro di pochi mesi, il figlio e il marito. Era andata così: Frank Hoffman si era già trasferito in America, a Chicago, dall'Ucraina, il suo paese d'origine. Però poi gli erano arrivate le notizie di quei pogrom, quei massacri in cui finivano gli ebrei, ed era accaduto anche a Belaya Tserkov, la sua città. Perciò Frank Hoffman, che in America aveva una vita e anche un figlio (cioè il padre di Dustin Hoffman) era tornato a casa, per salvare i suoi genitori. Tempo di rimettere il piede in patria ed era sparito. Qualche mese dopo, lo stesso destino era toccato al padre Sam. Entrambi erano stati arrestati e poi uccisi dalla Ceka, la polizia segreta dei bolscevichi. Libba non si era data per vinta. Come racconta un trafiletto in un giornale russo del 1921, Libba aveva cercato di corrompere un agente della Ceka, probabilmente per sapere qualcosa del destino del marito e del figlio: e così era finita in una campo di concentramento.

Anche se aveva già più di cinquant'anni, Libba era riuscita a sopravvivere. Il lavoro duro, le sofferenze, le condizioni di vita estreme non l'avevano piegata, nonostante tutto. Era fuggita in Argentina. E poi era arrivata in America, a Chicago, dove era morta nel 1944, a 76 anni. Di tutto questo, di questa storia di sacrifici e dolore e separazioni che è intrecciata a una storia molto più grande e altrettanto terribile, Dustin Hoffman non sapeva niente. «Mio padre era ateo» ha raccontato l'attore. Di ebraismo non si parlava, di religione non si parlava in casa sua. Non si parlava, soprattutto, della famiglia paterna, con la quale «non c'erano rapporti» (i suoi si erano trasferiti a Los Angeles). Oggi lui prova a capire. Quelle lacrime che significano? Commozione, certo. «Orgoglio», come ha detto lui, per una donna, la sua bisnonna, che ha dato la vita e anche di più per essere libera, e non si è lasciata piegare dall'orrore, dalla dittatura, dalla perdita dei suoi amori. Anche affetto per il padre, quello che aveva eretto un muro di dimenticanza: «Forse era semplicemente che non voleva fare sapere ai bambini, alla famiglia, perché è tutto così atroce. Magari mio padre, chi lo sa, ha pianto, si è aggrappato alle gambe di suo padre, gli ha gridato: Ti prego, papà, non andare... Povero papà».

Oggi, dice Hoffman, «a chi mi chiede:

chi sei?, rispondo: sono un ebreo». Certe parole vanno esibite, «portate sulla manica». Bisogna «fare un annuncio», scoprirle, come certe verità di famiglia, anche se non sono delle belle favole da raccontare ai bambini.

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