Milano - Il fall out della sindrome cinese colpisce anche il petrolio. È un barile sempre più sgonfio, deprezzato come mai era accaduto negli ultimi sei anni e mezzo, quello apparso ieri sui monitor delle sale operative negli Usa, dove il Wti è scivolato sotto i 39 dollari, così come sugli schermi europei, con il Brent del Mare del Nord crollato a 43,10 dollari. È un film horror che la crisi del Dragone asiatico ha solo reso più drammatico, una versione 2.0 della liposuzione dei prezzi già vista da mesi sui mercati e che ha trascinato in recessione un Paese produttore come la Russia.
La frenata cinese, la cui più ovvia conseguenza è una minor sete energetica, va infatti a esacerbare l'eccesso di offerta presente da tempo. Un surplus per il quale l'Opec, il Cartello che controlla il 40% della produzione mondiale, è tra i principali responsabili non avendo ricalibrato l' output in funzione di una domanda calante. Il motivo? C'è chi dice per stroncare Mosca, mentre altri sostengono che l'obiettivo da abbattere fossero le compagnie Usa di shale oil che cominciano ad avere margini di profitto solo con quotazioni del greggio sopra i 70 dollari. Il risultato è che, in luglio, le estrazioni Opec hanno toccato una punta di 31,8 milioni di barili al giorno, quasi due milioni in più rispetto al tetto stabilito, anche per il ritorno sulla scena dell'Iran dopo la rimozione dell'embargo commerciale. Non è da escludere che nel 2016, una volta tornata a pieno regime la capacità estrattiva, Teheran possa riversare sui mercati almeno un milione di barili al giorno in più rispetto alla produzione attuale. Un elemento che, in assenza di tagli produttivi, concorrerà a comprimere ancor più verso il basso i prezzi.
Il ministro dello Sviluppo economico russo, Aleksei Ulyukayev, ha ammesso ieri la possibilità che il prezzo del petrolio scenda sotto i 40 dollari al barile, ma solo «per poco tempo». Una durata maggiore causerebbe seri danni all'economia sotto forma di una ulteriore caduta del rublo, già ai minimi dell'anno, e una probabile contrazione dell'economia attorno al 5%. È uno scenario inquietante, ma per nulla inverosimile se si riflette sugli scarsi margini di apprezzamento che il barile dovrebbe avere nei prossimi mesi. Dell'Opec e dell'impatto iraniano sui prezzi abbiamo già detto. Ma va tenuto conto anche dei fattori stagionali che, storicamente, indeboliscono le quotazioni dell'(ex) oro nero. In autunno, per esempio, cala la richiesta di petrolio, in particolare quella di carburanti dopo l'aumento dei consumi imposto dagli spostamenti durante il periodo delle ferie estive.
Infine, il posticipo del previsto aumento dei tassi di interesse statunitensi, fino a qualche settimana fa collocato in settembre, rivelerebbe una certa preoccupazione anche per l'andamento della principale economia mondiale, quella Usa appunto.Il quadro è critico, non essendo mai del tutto una buona notizia i bassi prezzi del greggio se non per la bolletta petrolifera, destinata a fine anno probabilmente ad alleggerirsi rispetto ai quasi 25 miliardi del 2014.
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