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Ecco le opere utili che non sono nate fermate dai veti del no ideologico

In tutta Italia dighe, argini, bacini bloccati dal furore degli ambientalisti. L'ultimo report parla di ben 317 progetti contestati. E le esondazioni intanto continuano

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Gli eventi atmosferici di questi giorni tra alluvioni, grandinate e incendi rendono evidente non solo l'importanza di aumentare gli investimenti in prevenzione ma anche la necessità di opere e infrastrutture per contrastare il dissesto idrogeologico e mitigare le conseguenze dei fenomeni meteorologici avversi. Eppure negli ultimi anni la realizzazione di dighe, argini, bacini, vasche di laminazione (per non parlare di impianti in campo energetico), è stata bloccata dal furore ideologico dell'ambientalismo del no a tutto.

C'è un termine per definire chi si oppone alla costruzione delle opere necessarie in ambito ambientale ed è Nimby che si può tradurre con «non nel mio giardino». Per comprendere l'impatto del fenomeno basti pensare che nel 2004 è stato istituito in Italia il «Nimby Forum», un osservatorio permanente che gestisce l'unico database nazionale delle opere pubbliche contestate. L'ultimo rapporto disponibile è relativo al biennio 2017-2018 e quindi va aggiornato ma è utile per comprendere il contesto generale. Nel periodo preso in considerazione erano ben 317 le opere contestate in tutto il territorio nazionale di cui il 57% inerente al settore energetico, il 36% al trattamento dei rifiuti, il 6% alle infrastrutture e l'1% ad altre tipologie. Ma il dato che più sorprende è quello inerente ai soggetti che contestano la costruzione di opere e infrastrutture: se i cittadini sono coinvolti nel 35% dei casi, gli enti locali lo sono nel 26%, le rappresentanze politiche nel 25%, le associazioni ambientaliste nel 10% e le associazioni di categoria e i sindacati nel 4%.

Anche se dal 2017 è stata sbloccata la realizzazione di alcune opere, rimangono numerose infrastrutture in tutta Italia che, a causa dei preconcetti ideologici degli ambientalisti, non hanno ancora visto la luce nonostante la loro utilità con alcuni casi clamorosi. Uno di questi è la diga di Vetto in provincia di Reggio Emilia: proposta per la prima volta dall'allora ministro dell'Agricoltura Giovanni Marcora, nel 1988 incominciarono i primi lavori con l'obiettivo di trattenere l'acqua proveniente dai corsi d'acqua della zona formando una riserva idrica e proteggendo le località a valle dalle esondazioni. A trentacinque anni di distanza la diga non è ancora stata compiuta a causa di una serie di ricorsi, boicottaggi degli ambientalisti e interventi a difesa delle faine con un modus operandi tanto dannoso quanto diffuso. Gli esempi sono purtroppo numerosi come attesta il report «Manutenzione Italia: azioni per l'Italia sicura» realizzato dall'Anbi, l'associazione nazionale per la gestione dei bacini idrici. Si va dalle battaglie per il fiume Sacco nel Lazio alle proteste degli ambientalisti contro la Diga di Valsessera in Piemonte al centro di un contenzioso per la proposta di ampliamento, fino al caso del fiume Misa nelle Marche. Dal 1986 si discute di creare attorno al fiume quattro aree di laminazione mentre avvengono ciclicamente esondazioni che creano enormi danni.

Secondo l'Anbi solo al sud si contano almeno una trentina di opere idrauliche incompiute e, se alcuni progetti come l'invaso campano di Campolattaro o la diga di Pietrarossa in Sicilia sembrano essersi sbloccati, ci sono infrastrutture come la diga sul Melito in Calabria la cui realizzazione appare un'utopia. Oltre al danno della mancata costruzione di infrastrutture necessarie per il territorio, c'è anche la beffa di centinaia di milioni di euro spesi dai contribuenti per opere che non hanno mai visto la luce.

È il costo dell'ambientalismo ideologico.

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