Ecco tutte le mine che rischiano di far esplodere il Pd

La verità è che sul Senato si sta consumando una crisi latente che ha radici ben più profonde. E anche sulla riforma della scuola si sta consumando una crisi interna

Ecco tutte le mine che rischiano di far esplodere il Pd

Roma - «La nostra proposta sul Senato elettivo è imprescindibile». Il senatore della minoranza Pd Miguel Gotor ieri ha minacciato per l'ennesima volta il governo Renzi guardandosi bene dal brandire l'arma della crisi di governo o della scissione. Nel gioco delle parti tra renziani e dissidenti, ieri la parte dei falchi è toccata ai seguaci del premier. «Non mandare avanti le riforme costituzionali significa mettere termine a questa legislatura, lo sanno tutti», ha ribattuto il vicepresidente del partito Matteo Ricci quasi invocando le elezioni anticipate. «Basta caricature: nessuno vuole bloccare le riforme ma, al contrario, raggiungere l'obiettivo storico del superamento del modello del bicameralismo paritario», gli ha prontamente risposto il bersaniano Fornaro.

Ormai la vicenda sta assumendo contorni stucchevoli. La minoranza non può tornare indietro ingoiando l'ennesima prepotenza renziana, ma si mostra ancora titubante sul mollare gli ormeggi. Il Gotor-pensiero è lo specchio di questi sofismi. «Quello che non andrebbe politicamente è sostituire i nostri voti con quelli di Verdini», ha chiosato il bersaniano sottintendendo che la minoranza Pd intende riservarsi un minimo potere di ricatto.

La verità è che sul Senato si sta consumando una crisi latente che ha radici ben più profonde. Gli esponenti bersaniani hanno nei mesi scorsi votato a favore di provvedimenti che non condividevano. In primo luogo, il Jobs Act. L'Articolo 18, cioè la non licenziabilità dei lavoratori a tempo indeterminato, e il divieto di demansionamento sono sempre stati nel Dna di una sinistra a trazione sindacale. I vari Bersani, Cuperlo e compagnia bella, invece, hanno garantito a Renzi sostegno obtorto collo.

Identico discorso per la riforma della scuola. L'anima rossa del Pd era sommamente contraria al rafforzamento dei poteri dei presidi e all'introduzione di strumenti di valutabilità dell'efficienza dei docenti (idem per la Pa), ma alla fine non ha ottenuto nulla o quasi. Se non sentirsi incolpata dell'impasse momentanea che Renzi sfruttò per imputare ai bersaniani la mancata assunzione dei precari. Senza contare la figuraccia sull'Italicum quando le varie anime della minoranza non trovarono la quadra andando in ordine sparso. Insomma, la minoranza del Pd ha giocato malissimo la propria partita. E, in un caso, è stata pure sfortunata perché il rimborso della mancata indicizzazione delle pensioni si è mangiato il sussidio anti-povertà. Si tratta di quel miliardo in deficit che il governo voleva spendere e che loro avrebbero potuto giocarsi come un jolly.

Ora non è rimasta che la retroguardia sul Senato elettivo per marcare il territorio. Il loro spazio è sempre più compresso tra un leader debordante che li chiama sempre «gufi» e una sinistra che sta cercando disordinatamente di darsi un volto nuovo tra Civati, Fassina e Landini. È il canto del cigno di una generazioni di dalemiani. Ecco perché l'ex ministro Cesare Damiano, li ha implorati.

«A Bersani, Cuperlo, Speranza e a me stesso dico: non possiamo uccidere in eterno i nostri leader, uno dopo l'altro, appena varcano la soglia di Palazzo Chigi», ha detto. Vorrebbero far fuori Matteo per vendetta, ma non sanno se le munizioni sparano.

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