Egitto, cristiani nel mirino. Bomba in chiesa: 25 morti

Attacco islamico al Cairo con un ordigno da 12 chili di tritolo durante la messa. La persecuzione prosegue

Un attentato simbolico nel nome del più spietato odio islamista. Un attentato per celebrare il Mawlid Al Nabi, la festa per la nascita del Profeta. Un attentato studiato per uccidere il maggior numero di cristiani copti utilizzando, dicono le autorità egiziane, un ordigno contenente 12 chili di tritolo. Un ordigno piazzato sul lato femminile della navata di San Pietro e Paolo, una piccola chiesa adiacente alla cattedrale Copta di San Marco, nel quartiere cairota di Al Abasiya. Un ordigno fatto esplodere in mezzo alla folla domenicale che regala, purtroppo, il risultato atteso. Tra le macerie della navata e le panche insanguinate i soccorritori raccolgono 25 cadaveri, tra cui quelli di sei bambini, e una cinquantina di feriti. Una carneficina peggiore di quella del primo gennaio 2011 quando un attentatore suicida si fece esplodere all'uscita della chiesa dei Due Santi di Alessandria dilaniando 23 fedeli e mettendo a segno l'attentato ricordato - fino ad ieri - come il più sanguinoso ai danni della minoranza copta.

I circa nove milioni di fedeli copti, pari a circa il 10% della popolazione egiziana, sono da tempo uno dei bersagli preferiti di quell'Islam integralista che, dal 2013, ha già messo a segno una quarantina di attacchi contro di loro. In pratica un episodio al mese, con decine di morti concentrati nella regione di Minya, il turbolento governatorato sulla riva sinistra del Nilo - 250 chilometri a Sud del Cairo - dove una popolazione al 35% cristiana si confronta con quell'intollerante presenza wahabita che ha contagiato l'Egitto dopo il rientro di numerosi migranti da Arabia Saudita e Paesi del Golfo. Un contagio seguito a ruota dai finanziamenti a moschee e scuole religiose dove si predicano fanatismo e odio anti-cristiano. Moschee dove s'insegna che un copto non può testimoniare contro un musulmano. Scuole dove si spiega che un fedele di Maometto non può venir punito per aver ucciso un seguace del Vangelo.

A render tutto più complesso s'aggiunge la virulenta situazione politica generata dal golpe che nel 2013 fece cadere il regime dei Fratelli Musulmani guidato dal presidente Morsi. Un golpe sostenuto e appoggiato, secondo gli islamisti, dalla maggioranza dei cristiani. Questi ultimi, tuttavia, sembrano averne tratto ben pochi benefici. Preoccupato di non inimicarsi quei wahabiti sauditi che l'appoggiano nella lotta ai Fratelli Musulmani il presidente Abdel Fattah al Sisi - pur lodando la moderazione dei cristiani e ripetendo di considerare «tutti uguali nei loro diritti e nei loro doveri, in accordo con la Costituzione» - si guarda bene, nei fatti, dal reprimere l'intolleranza islamista. Non a caso la minoranza copta viene sistematicamente esclusa da ogni aspetto della vita politica e sociale. La serie A del seguitissimo campionato di calcio egiziano, tanto per fare un esempio, non conta un solo giocatore copto. E i pur numerosi e qualificati atleti cristiani continuano a venir sistematicamente estromessi dalle rappresentative olimpioniche. In compenso, lo scorso agosto, media e pubblico hanno celebrato alla stregua di un eroe il judoka Islam El Shehaby rientrato dal Brasile dopo essersi rifiutato di stringere la mano a un avversario israeliano.

Ma se nello sport subiscono esclusione ed emarginazione, nella vita di ogni giorno i cristiani rischiano molto di più. Il 30 giugno scorso ad Al Arish, capoluogo di quel Sinai dove imperversa lo Stato Islamico, un prete copto è stato freddato a colpi di kalashnikov. E peggio ancora è andata non nel Sinai fuori legge, ma a Tanta, cittadina 9 chilometri a Nord del Cairo. Lì, il 9 luglio scorso, una folla salafita ha ammazzato a coltellate e poi decapitato un farmacista cristiano colpevole di aver tentato di consegnare dei medicinali in una zona musulmana.

Un assassinio rimasto come sempre impunito, nonostante le riprese delle telecamere di sorveglianza, visto che le autorità scoraggiano i cristiani dal cercar giustizia, ma li spingono piuttosto a cercare un rimborso in denaro da parte dei propri aguzzini. Un modo come un altro per cancellare l'evidenza d'una persecuzione mai registrata da giudici e tribunali.

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