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Emiliano resta e si candida: "Io come Che Guevara"

Bersani: "Non rinnovo l'iscrizione, il Pd non è più la ditta". D'Alema: "Io insultato. A parte Renzi, siamo tutti uniti"

Emiliano resta e si candida: "Io come Che Guevara"

Poi dice che uno si butta (nella mischia). Tutto è in movimento, nella cristalleria del Nazareno assediato dalla folla. Sono gli ambulanti anti-Bolkenstein, che pure non è l'ultimo dei candidati oriundi alle primarie del Pd. Dal retro entrano, scortati da robusti cameramen, invece gli ultimi appassionati del rito congressuale.

Emiliano c'è, Rossi e Speranza no (non è uno gioco di parole, anche se lo sembra). Loro si considerano fuori: «E grazie, li avete offesi e bastonati», dirà il governatore. «Di fronte all'avarizia renziana tanta è stata la voglia di andar via», sospira spiegando che il dimissionario leader «tiene tutti sotto la spada di Damocle del voto anticipato» e dunque il congresso con «rito abbreviato» sarà per forza un suo nuovo trampolino di lancio. Le scorie sono tante, le ferite ancora aperte. Renzi «ha fatto capire che era meglio che D'Alema e Bersani se ne andassero, i bersaniani si sono fatti l'idea che sia inutile contendere la leadership nel Pd». Anche perché il leader vuole vincere «con ogni mezzo». Ma allora, perché star qui a candidarsi e non fuori, a costruire l'Ulivo di D'Alema? «Chi non lotta ha già perso», proclama lo sfidante dal nome rivoluzionario messicano, citando il collega argentino Che Guevara. «Nessuno mi caccia da casa mia».

Ci sono molti modi, per assaltare una cristalleria. Emiliano assicura che non esiste alcuna rottura con gli scissionisti: ci sarà chi contende il passo a Renzi all'interno e chi da fuori, tutto qui. «Farò di tutto perché rientrino», annuncia, anche se nel frattempo Speranza sta già lavorando alla costruzione di un «nuovo soggetto politico». Emiliano era il più adatto a restare nel Pd: con l'operazione primarie assurgerà a statura di leader nazionale, catalizzando gran parte della minoranza anche qualora si candidi Orlando. Ma il gioco a tutto campo ammette varianti, persino in uno statuto e un regolamento che solo Orfini, lasciato a guardia del bidone, considera come tavola della legge. Cuperlo chiede primarie a luglio, per dare un segnale di sostegno e durata al governo, ma Matteo il Grande non vuole e il Piccolo esegue. Trincerandosi, appunto, dietro norme che furono stravolte quando la sfida l'aveva lanciata Renzi a Bersani. C'è ancora nervosismo e le tossine non sono smaltite. Alla fine l'ok alla commissione congresso ci sarà, sia pure integrata con gli uomini che garantiscono Emiliano. A lui tocca di fare l'«entrista», come i trotzskisti di un tempo, mentre altri giochi si svolgeranno fuori.

Nei talk tv della sera, Bersani ribadisce di non essere intenzionato a riprendere la tessera di un partito renziano, «il Pd non è più la ditta», mentre D'Alema inaugura la nuova stagione da regista (di scissioni) da Bianca Berlinguer. Amica di sempre e, soprattutto, speranza per l'avvenire. Nel progetto di un'aggregazione capace di svuotare il Pd, fino a reinglobarlo, un nome come quello della Berlinguer sarebbe in grado di chiudere il conto col giocoliere di Firenze: «Senza lui, saremmo tutti uniti». D'Alema ora parla senza freni dell'esperienza renziana, periodo nel quale «chiunque obbiettasse veniva insultato da gruppi di energumeni». Renzi ha cercato di «rottamare i valori della sinistra e bisognava che qualcuno reagisse - spiega -, ma non ha dato prova di grandi capacità né politiche né di governo». Pur non candidandosi a nulla, nella futura formazione, D'Alema apprezza Pisapia e i suoi sforzi: «Sarà ragionevole lavorare assieme» e dice che ci saranno ripercussioni sul governo Gentiloni «solo se Renzi vorrà fare ritorsioni».

Ultima battuta per chi l'ha definito ironicamente «conducator» della scissione: «Il problema Giachetti? L'ha risolto la Raggi, diciamo».

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