Partiamo da una premessa. Regalare ad uno spregiudicato autocrate come il presidente turco Recep Tayyip Erdogan la passerella di onori che l'ha visto transitare dal Vaticano a Palazzo Chigi, con tappa nella sala pranzo del Quirinale, era eticamente inaccettabile. Eppure nessuno, a cominciare dal Papa, ha potuto dirgli di no. Il motivo è semplice. La forza di Erdogan sta nella sua capacità di mescolare politica e ricatti. Al centro delle pressioni sul Vaticano vi è la sopravvivenza delle esigue (180mila fedeli), ma assai vulnerabili, comunità cristiane turche. Una pressione resa ancor più spregiudicata dalla tempistica d'una visita coincisa con l'anniversario dell'assassinio di don Andrea Santoro, ucciso 11 anni fa da un estremista islamico rimesso poi in libertà dallo stesso Erdogan. Per l'Italia il ricatto, sotto forma di bastone e carota, oscilla tra migranti ed affari. Il legame con gli affari è evidente. Dai buoni, o almeno decenti, rapporti con il Sultano dipendono esportazioni per oltre dieci miliardi di dollari, il ruolo di terzo partner commerciale e le attività di 1300 aziende italiane presenti in Turchia. Ma la coercizione garantita dal fattore migranti resta la più pesante. Sia noi, sia il resto dell'Europa, abbiamo già sperimentato la forza di quel ricatto. È successo nel 2015 quando Erdogan aprì i cancelli dei campi profughi e lasciò tracimare centinaia di migliaia di rifugiati e migranti verso il Pireo. I cancelli si chiusero solo quando Angela Merkel, la più colpita dalla manovra, s'impegnò - a nome nostro e del resto d'Europa - a girare ad Ankara sei miliardi di euro. Ora ci risiamo. Dietro l'invasione del nord della Siria controllato dalle milizie curde - un atto privo di legittimità sufficiente, da solo, a rendere improponibile la visita del presidente turco - si nasconde il seguito della truffa migranti ordita nel 2015. Per capirlo basta leggersi le conclusioni del summit di Ankara del 23 gennaio al termine del quale i vertici politico militari turchi sintetizzarono così gli obbiettivi dell'offensiva anti curda in territorio siriano. «La nostra operazione continuerà finché la regione sarà completamente ripulita dalle organizzazioni del terrore separatista (i curdi, ndr) e 3 milioni e mezzo di siriani rifugiati in Turchia potranno far ritorno alla madre patria». Peccato che la «madre patria» offerta a quei tre milioni e mezzo di disgraziati sia un lembo di terra devastato dalla guerra tra curdi, jihadisti, turchi, siriani e russi in cui neppure i profughi vorranno restare. A quel punto nessuno, tranne Erdogan, potrà impedire che quella bomba da tre milioni e mezzo di migranti tracimi nuovamente verso i confini europei. E a quel punto il Sultano tornerà ad avere in mano gli assi indispensabili per ricattarci. Ma non li userà certo per farsi accogliere nell'Ue. Lui fuori da quell'Europa così fastidiosamente attenta al rispetto di democrazia, diritti umani e libertà di stampa ci sta da Dio. Anche perché il suo obbiettivo non è abbracciarci, ma piegarci. Lo sanno bene i servizi segreti tedeschi impegnati a contrastare le attività delle moschee e delle comunità di migranti turche trasformate in basi e quinte colonne di Ankara. In Italia non esistono presenze così ingombranti, ma in cambio esiste una Libia totalmente musulmana dove i nostri interessi nazionali si scontrano pericolosamente con quelli di Ankara e quelli della Francia dell'«amico» Macron. Non a caso un mese prima di passare per Roma il Sultano s'è fatto ricevere a Parigi.
E prima di volare verso l'Italia non ha perso l'occasione di sfruttare le vicende di Macerata - rivendute come un attacco ai musulmani - per riproporsi come uno dei grandi padrini dell'Islam. Libia compresa. Ecco perché tenere alla porta Erdogan sarebbe bello. Ma risulta quasi sempre impossibile.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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