Dopo la conquista di Afrin, il presidente turco Erdogan annuncia l'estensione delle operazioni militari al resto del nord della Siria in mano ai curdi, e minaccia perfino di sconfinare in Irak per regolare anche lì i conti con «i terroristi».
Erdogan ha sempre considerato la questione curda una priorità assoluta della sua agenda caratterizzata da un nazionalismo sempre più scopertamente aggressivo, e ci sono poche ragioni per dubitare che farà seguire i fatti alle parole. Consapevole della forza del suo esercito e delle circostanze a lui favorevoli che si sono determinate in Siria, Erdogan non teme né la reazione del ringalluzzito collega siriano Assad, che gli ha intimato di ritirare le sue truppe in Turchia, né il contrasto che già si delinea con il confinante Irak. Il vero problema è semmai il pericoloso confronto che si va delineando con gli Stati Uniti, che considerano le milizie curde Ypg non dei terroristi, ma degli alleati che hanno contribuito in modo decisivo alla sconfitta dello «Stato islamico».
«Abbiamo lasciato alle spalle la tappa più importante dell'operazione - ha detto ieri Erdogan - ma continueremo il lavoro fino alla distruzione totale del corridoio costituito da Manbij, Ain al-Arab, Tal Abyad, Ras al-Ain e Kamishli». Sono queste tutte località del nord della Siria lungo il confine turco che Erdogan intende «ripulire dai terroristi curdi», pulizia che egli considera doverosa come quella contro l'Isis e quella contro il Pkk all'interno dei confini nazionali, che anche in questi giorni continua con decine di vittime.
Peccato che a Manbij stazioni un centinaio di militari americani per aiutare l'Ypg a contrastare una delle ultime sacche dell'Isis in Siria. E che Ain al-Arab altro non sia che il nome arabo di Kobané, la città martire dei curdi dove nel 2015 si sono infranti in un bagno di sangue i sogni di conquista dell'Isis. Logico dunque che Washington abbia messo in guardia Ankara, esprimendo «grave e crescente preoccupazione» per la sua offensiva che non solo mette nel mirino un alleato sul campo degli Stati Uniti, ma che sta consentendo all'Isis stremato di rialzare la testa in alcune aree.
Gli Stati Uniti hanno anche criticato la Turchia per la drammatica situazione umanitaria che hanno determinato ad Afrin, con 250mila profughi civili in disperata fuga. Ma da Ankara arrivano repliche che hanno il tono della sfida contro quello che sulla carta (ormai sempre più sulla carta) dovrebbe essere il principale alleato della Turchia nella Nato. «Dove eravate quando vi abbiamo espresso le nostre preoccupazioni e vi abbiamo proposto di eliminare insieme i terroristi? - ha chiesto polemicamente Erdogan -. Se noi siamo vostro partner strategico allora ci dovete rispettare, dovete restare al nostro fianco».
L'equazione «curdi=terroristi» è quella cui Erdogan si appoggia per giustificare il suo intervento in Siria e quello già minacciato nel nord dell'Irak: «Arriveremo di notte e faremo pulizia anche a Sinjar», ha minacciato il «Sultano» citando la piazzaforte irachena del Pkk. Erdogan finge di non sapere che per gli americani le milizie curde sono degli alleati e usa lo stesso linguaggio con l'Ue che pateticamente (perché alle parole non farà mai seguire alcun fatto) esprime preoccupazione per le mosse turche in Siria: «Vi abbiamo proposto di combattere insieme e vi siete tirati indietro.
E stiamo ancora aspettando tre miliardi di euro per l'accordo sui migranti del 2016». Accusa, quest'ultima, rispedita al mittente da Bruxelles: «Quei soldi non sono per lo Stato turco ma per i rifugiati in Turchia e sono regolarmente arrivati a destinazione».
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