C'è almeno un caso «certificato» di jihadisti arrivati in Europa confondendosi tra i profughi: i due kamikaze che nel novembre scorso si sono fatti esplodere nei pressi dello Stade de France di Parigi. È certamente un fatto allarmante, che peraltro ha tacitato il fronte politico-culturale che aveva ostinatamente negato questa possibilità, ma uno dei più importanti studiosi isrealiani del fenomeno terroristico, il professor Boaz Ganor, da tempo insiste a indicarci un altro aspetto del legame tra immigrazione e violenza eversiva, un legame fatto di frustrazione e di una specie di «lotta di classe», più identitaria però che economica. I «negazionisti» del resto, dopo il caso di Parigi, hanno cambiato registro e insistono a sottolineare che la maggior parte degli autori delle stragi non sono arrivati sui barconi, ma nati in Europa. È il caso dei fratelli Kouachi, gli assassini di Charlie Hebdo, nati in Francia, o degli stragisti di Zavantem, Najim Laachraoui e i fratelli Bakraoui, tutti nati in Belgio. Ideologicamente, si omette però di dire che sono figli di immigrati.
Non si possono condannare in blocco le comunità immigrate che vivono in Europa. Ma esiste un legame tra i due fenomeni, sostiene Ganor, direttore dell'Institute for Counter Terrorism dell'Università di Herzliya, ed è complesso e articolato. E l'Europa non se n'è preoccupata per tempo. Lui lo descriveva già in un saggio del 2014: il rischio maggiore proviene dalle seconde e terze generazioni. Ganor fa un parallelo con le cause della Prima Intifada, nel 1987. Per vent'anni dopo la guerra dei Sei Giorni e l'occupazione dei territori, «la maggioranza della popolazione di Gaza e West Bank non è stata attivamente coinvolta in attività violente o attacchi terroristici». Oltre 120mila palestinesi facevano i pendolari verso Israele, avendo trovato impieghi di basso livello, ma che ne avevano comunque migliorato la situazione economica, «tanto da generare un quarto del Pil del West Bank». «I lavoratori palestinesi paragonavano la propria situazione con quella di parenti e amici» in Giordania e in altri Paesi arabi sentendosi, nonostante i tanti problemi, tutto sommato fortunati. Queste famiglie hanno poi investito per far studiare i figli. Ma alla formazione superiore delle nuove generazioni non ha poi corrisposto un'offerta, da parte della società israeliana, di posti di lavoro adeguati. Il risultato, spiega Ganor, è una diffusa frustrazione, anche nel confronto con i coetanei israeliani. Il professore ovviamente riconosce le tante differenze tra la situazione israeliana e quella dell'Europa occidentale che ha accolto migliaia di immigrati dalle ex colonie, spesso attraverso progetti che li inserivano nel mercato del lavoro. Il modello dei Territori si è replicato in Europa: le seconde e terze generazioni sono cresciute in teoria come belgi o francesi, ma in pratica spesso confinati nelle banlieue, criticando i genitori che si erano accontentati dei posti di coda delle società occidentali. A loro manca il confronto con il tenore di vita, peggiore, nei Paesi d'origine. Nella crisi di identità di questi giovani, «alienati e disconnessi» nota Ganor, si sono inserite le istituzioni educative islamiche, che ne hanno rafforzato il senso di appartenenza alla cultura d'origine. Prima ne sono scaturite le rivolte delle banlieue, poi il terrorismo, grazie anche al proselitismo via web dell'Isis. Una teoria che, tra l'altro, spiega perché l'Italia è, finora, meno colpita: semplicemente è un Paese dove le seconde generazioni si stanno affacciando sulla scena sociale solo ora.
Tocca alla leadership politica europea adesso decidere come agire. Chiudere le frontiere forse è impossibile, ma accogliere indiscriminatamente senza valutare bene la capacità di integrazione di ciascun Paese, se la teoria israeliana è giusta, è suicida.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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