Per Barack Obama, che nel 2009 ricevette il Premio Nobel per la pace «sulla fiducia», prima ancora che facesse un solo passo nell'arena diplomatica, questo sarà l'ultimo Capodanno passato alla Casa Bianca: è quindi il momento di raffrontare i programmi originari con i risultati ottenuti, di vedere quale eredità lascerà al suo successore. Non sarà certo il presidente ad ammettere che questo bilancio è fallimentare, ma i commentatori, di destra ma anche di sinistra, hanno pochi dubbi. I più severi ritengono che Obama sia stato il peggiore «comandante in capo» dai tempi di Carter, i più indulgenti si limitano a dire che, anche a volere considerare «successi» l'accordo nucleare con l'Iran, la fine delle sanzioni contro Cuba e la conferenza parigina sul Clima (in cui peraltro l'America è stata soltanto una sia pure importante comprimaria) c'è poco di cui menare vanto.
La verità è che il primo presidente afroamericano (e tuttora sospettato dal 20 per cento della popolazione di essere musulmano), che si era proposto soprattutto una nuova apertura verso Medio Oriente, Asia ed Africa, relegando i rapporti con l'Europa in secondo piano, si appresta a lasciarci un mondo meno sicuro, più carico di tensioni e più pieno di pericoli di quello che gli aveva lasciato George Bush; un mondo, per giunta, su cui l'America esercita sempre meno influenza, sia sul piano politico sia su quello militare. Il mito della superpotenza che tutto poteva si è sgretolato. Il fallimento è particolarmente evidente proprio in quel Medio Oriente cui Obama ha rivolto la massima attenzione, dedicandogli la prima importante intervista (con la Tv saudita Al Arabiya) dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, rivolgendosi agli iraniani in farsi, e andando addirittura al Cairo (dove allora c'era ancora l'amico Mubarak, poi scaricato allo scoppio della «primavera») per annunciare una nuova «apertura» degli Stati Uniti verso il mondo arabo.
Ma che cosa è rimasto di tanti buoni propositi? Un trattato con Teheran per il blocco temporale dell'atomica iraniana pieno di lacune e di concessioni pericolose; un Iraq e una Libia nel caos; un terrorismo jihadista più diffuso e più pericoloso di quello di Al Qaida; un Afghanistan che dopo 14 anni di sforzi occidentali rischia di ritornare sotto il dominio dei Talebani; una Siria straziata da quattro anni di guerra civile in cui l'odiato Assad (di cui Obama aveva preteso fin dall'inizio la cacciata) ha finito col trasformarsi in un alleato quasi indispensabile contro l'Isis; un conflitto israeliano-palestinese che da intrattabile che era, è diventato, proprio per le inopportune interferenze americane, quasi insolubile. Particolarmente emblematica è stata la interminabile gestazione dell'accordo con l'Iran sulle limitazioni all'attività nucleare della Repubblica islamica (peraltro ancora da ratificare sia a Washington sia a Teheran). L'ayatollah Khamenei non ha tardato a capire di avere a che fare con un interlocutore incerto, che alla retorica democratica e alla severità del linguaggio non faceva mai seguire azioni incisive, e messo di fronte al dilemma tra rottura e cedimento tendeva a scegliere il secondo.
Questo è risultato evidente soprattutto quando l'America, dopo avere chiesto a gran voce il rispetto dei diritti umani, non ha mosso un dito quando il regime ha stroncato nel sangue la «rivoluzione verde» seguita alla fraudolenta rielezione del presidente Ahmadinejad. È vero che, di fronte alle tattiche dilatorie di Teheran Washington ha promosso sanzioni economiche sempre più severe; ma quando, nel 2013, alla presidenza è arrivato il più moderato Rouhani, si è affrettata a tornare al tavolo dei negoziati e ha finito con il concludere un trattato che, in cambio di una graduale abolizione delle sanzioni rinvierà (se gli ayatollah non bareranno) la trasformazione dell'Iran in potenza nucleare per un massimo di dieci-quindici anni. I termini dell'accordo hanno fatto infuriare non solo Israele, che si è sentita tradita, ma anche buona parte del Congresso e hanno indotto lo stesso Rouhani a proclamare che c'era stata «una resa delle grandi potenze alla grande nazione iraniana».Mentre i cosiddetti 5+1 trattavano con Teheran, tutt'intorno gli errori americani favorivano una deriva disastrosa. Il primo è stata l'entusiastica accoglienza riservata alla «primavera araba» a detrimento dei regimi autoritari, ma laici e alleati dell'Occidente, allora al potere. Obama e i suoi collaboratori si sono illusi che le sollevazioni popolari portassero alla instaurazione di vere democrazie, arrivando ad appoggiare i Fratelli musulmani in Egitto, a collaborare alla cruenta (e alla resta dei conti infausta) liquidazione di Gheddafi e considerando i sunniti insorti contro il dominio di Assad campioni della libertà. L'Egitto è riuscito a fermare la deriva, abbattendo l'oscurantista e inetto presidente Morsi cui la Casa Bianca aveva dato la sua benedizione e riportando l'ordine nel Paese, ma altrove le cose sono andate di male in peggio.
Il ritiro anticipato delle forze statunitensi dall'Iraq di cui Obama aveva fatto una questione di principio - ha rilanciato lo scontro tra gli sciiti cui Washington aveva in pratica consegnato il potere e i sunniti che avevano fatto capo a Saddam, favorendo la nascita del Califfato e il caos che ne è seguito. In Siria, Obama aveva tracciato la cosiddetta «linea rossa», promettendo di intervenire militarmente se Assad avesse fatto uso di armi chimiche; ma quando ciò è avvenuto, invece di procedere, ha accettato la proposta di Putin di soprassedere in cambio dello smantellamento dell'arsenale chimico del regime. Risultato: la Casa Bianca ha perso la faccia e la Russia è rientrata alla grande sulla scena mediorientale. Per quanto comprensibile alla luce dei precedenti, la riluttanza di Obama a mettere «gli scarponi sulla sabbia», limitandosi a combattere l'Isis con bombardamenti aerei, ha permesso al sedicente stato islamico non solo di occupare un territorio a cavallo tra Iraq e Siria delle dimensioni dell'Inghilterra, ma anche di consolidare il suo prestigio nel mondo islamista e di radicalizzare una parte dei musulmani residenti in Occidente.Rimediare a questo sviluppo richiederà, per ammissione dello stesso Obama, anni e anni. Il bilancio è negativo anche su buona parte degli altri fronti. I tentativi di risolvere il conflitto israeliano-palestinese in origine uno degli obbiettivi primari di Obama sono miseramente naufragati anche perché la sua amministrazione ha favorito in maniera eccessiva le rivendicazioni dei palestinesi, trasformando una (modesta) espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania in una crisi internazionale e incoraggiando così, indirettamente, l'intransigenza di Ramallah e l'intifada dei coltelli. I
l solenne annuncio di trasferire il fulcro della politica estera americana dall'Atlantico al Pacifico, creando una rete comprensiva di alleanze, ha fruttato sì la conclusione di un Trattato di libero scambio tra i Paesi rivieraschi dell'Oceano, ma in compenso ha esasperato le tensioni con la Cina e ha sicuramente incoraggiato il nuovo attivismo militare di Pechino nel Mar Cinese meridionale cui Washington non sa bene come far fronte. L'Africa si aspettava dal primo presidente nero una attenzione particolare, invece i suoi governi hanno finito con il rimpiangere Bush. Quanto all'operato di Obama in Europa, il suo errore principale è stato di sottovalutare la voglia di rivincita della Russia di Putin, andando a provocarlo con proposte di associazione alla Nato (anche alla Ue, ma qui lui non c'entra) di ex repubbliche sovietiche come Georgia ed Ucraina poco utili all'assetto del continente, e certamente intollerabili per Mosca.
E quando questa ha reagito a una «rivoluzione» filoccidentale a Kiev con l'invasione della Crimea e l'appoggio ai movimenti separatisti del Donbass, la risposta della Casa Bianca è stata la promozione di sanzioni che danneggiano molto più l'Europa degli Stati Uniti e certamente non hanno favorito i rapporti transatlantici.Si dirà: non tutte le colpe sono di Obama, vi hanno contribuito consiglieri spesso incompetenti e faziosi, alleati che si sono lasciati trascinare su strade sbagliate, la grande crisi economica che per i primi anni della sua presidenza hanno indebolito il Paese.
Ma, alla fine, quanto di male è successo in questi anni resterà legato al suo nome, e per non uscirne a pezzi deve solo sperare che, entro il 2016, almeno la guerra contro il Califfato che si va intensificando in questi giorni vada a buon fine.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.