La mesta processione fuori dal palazzo al 119 di Liberty Street dei dipendenti della fallita Lehman Brothers, con gli scatoloni gonfiati dai ricordi di una carriera ormai al capolinea, resta l'immagine più iconica dei disastri provocati dalla crisi dei mutui subprime. Ma in quel settembre 2008 il virus dei «prestiti per tutti», concessi disinvoltamente anche a chi flirtava con l'insolvenza, era ormai conclamato da mesi. È infatti il 9 agosto di dieci anni la data che fissa come un'istantanea il giorno esatto in cui il mondo comincia a fare i conti con un cataclisma epocale, globale e senza precedenti per modalità e capacità di mutazione.
L'innesco parte da Bnp Paribas: tre fondi che investono in obbligazioni Usa garantite da mutui subprime vengono congelati. Sembra solo una palla di neve: diventerà una valanga, alimentata dal crescente numero di debitori incapaci di onorare gli impegni a causa dei tassi d'interesse in rialzo e dall'impacchettamento di questi mutui in prodotti finanziari speculativi. Il fenomeno prende in contropiede un po' tutti e, fatto ancor più grave, viene sottovalutato dalle autorità di vigilanza del mercato e, soprattutto, dalle banche centrali. Così, all'inizio, gli argini messi in campo hanno la resistenza di un grissino davanti al fuggi-fuggi collettivo nelle Borse. Ben Bernanke, all'epoca presidente della Federal Reserve, si esibisce in un «troncare, sopire» di manzoniana memoria, circoscrivendo a pochi miliardi di dollari il conto di una crisi che l'anno dopo, nelle stime dell'Fmi, avrà già superato i 1.000 miliardi a livello mondiale. Il suo collega della Bce, il francese Jean-Claude Trichet, fa anche peggio gingillandosi con i timori d'inflazione: bisognerà aspettare fino a dicembre 2008 prima di vedere il primo taglio dei tassi.
Insomma: un agire tardivo che non imbriglia la crisi e finisce per consegnare il mondo nei tentacoli della Grande Recessione. Gli interventi veri, quelli radicali, arriveranno solo sul finire del 2008, quando la Fed vara il primo round di quantitative easing. Da lì in poi, il lessico dell'emergenza si esprime in una fioritura di acronimi esoterici, dal Qe al Tarp, dallo Zirp (tassi a zero) al Nirp (tassi negativi), e nel celeberrimo «Whatever it takes» con cui Mario Draghi salva l'euro. Alle misure monetarie non convenzionali si affiancano norme più stringenti, e moralizzatrici, per i mercati finanziari (quelle stesse regole che ora Donald Trump vorrebbe rottamare), e si costringono le banche - dopo averle aiutate con la stampella statale - a irrobustirsi sotto il profilo patrimoniale per reggere eventuali, nuovi choc avversi e le si sottopone all'esercizio degli stress test.
Da un certo punto di vista, queste contromisure hanno funzionato. Il rischio di replicare la Grande Depressione è almeno stato scongiurato. Ma a che prezzo? Il ricorso alle politiche di austerity, funesto per consumi e occupazione, non ha permesso a nessun Paese di tornare ai livelli pre-crisi. La Grecia, nodo ancora irrisolto nonostante riforme draconiane e aiuti miliardari, ne è l'esempio palmare; nè ha dato frutti il pigiare sul pedale del deficit spending, con il debito globale quasi raddoppiato (dai 32mila miliardi di dollari del 2008 agli attuali 60mila miliardi). Nemmeno Keynes avrebbe approvato. Il mondo è inoltre scosso da fremiti nazionalistici e protezionistici, generati da una ripresa ancora incerta e fondata spesso sulla precarietà salariale o, nella migliore delle ipotesi, su stipendi stagnanti. Infine, le banche centrali hanno fatto molto, ma diventando prestatori di ultima istanza hanno anche contribuito ad abbattere la percezione del rischio e reso problematico il processo di rientro dalle misure emergenziali; così come i tassi a zero hanno incoraggiato la pratica dei buy-back, lo strumento principe per perpetuare la filosofia dei ricchi bonus e dei super-dividendi. E per inflazionare i prezzi delle azioni.
«Nessuno sa quando o come arriverà la prossima crisi: l'unica cosa certa è che arriverà», ha detto di recente Draghi. L'impressione, dopo 10 anni, è che dalla ragnatela dei subprime non ci siamo ancora del tutto liberati.
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