Roma - Matteo, fai qualcosa: dagli amici, dai supporter e anche dai primi teorici del renzismo arriva al premier il consiglio di inventare, e in fretta, una mossa del cavallo per uscire da quell'«angolo» in cui Giuliano Ferrara lo descriveva ieri sul Foglio.
La tensione, a Palazzo Chigi e dintorni, non è mai stata tanto alta. Il capo del governo è concentrato sulla necessità di gestire la drammatica emergenza delle banche, esplosa sull'onda della Brexit, ma intanto nel Palazzo la fibrillazione politica è ai massimi livelli, e il caso Alfano minaccia di diventare il detonatore di un'esplosione difficilmente controllabile. Si attende con ansia di vedere se l'offensiva mediatico-giudiziaria che alimenta le richieste di dimissioni delle opposizioni si fermerà qui o andrà oltre perché, spiegano dalle parti del premier, «Alfano non è né Lupi né la Guidi». Ossia, non si può uscirne con dimissioni pilotate e rimpiazzo del ministro: «Dovremmo andare dal capo dello Stato e capire con lui cosa fare». Se cioè aprire una vera crisi di governo, come e con che sbocchi. Sbocchi che ieri, nelle frenetiche chiacchiere di Transatlantico, non escludevano neppure le elezioni anticipate.
È in questo quadro torbido e confuso che si levano le voci di chi, con preoccupazione, invoca da Renzi un cambio di rotta. Giuliano Ferrara descrive un «discorso pubblico» renziano «appannato». E vede «l'ombra della diffidenza d'opinione» allungarsi «sul Royal baby e sui suoi, assediati per mille rivoli dall'incalzante (un già visto ma efficace) iniziativa della magistratura militante». Colpa di «certi errori del capo, certe debolezze della corte, la ripresa economica debole». Ma soprattutto, sottolinea, il premier rischia di pagare «le cose fatte, i successi, le realizzazioni, i capitoli chiusi e completati, che impauriscono e come sempre incidono sulla fretta di sbarazzarsi di chi fa». Di fronte a questo, dice Ferrara, è urgente per Renzi «inventarsi» qualcosa «di forte, traumatico, dimostrativo e utile al paese», e comunicarlo all'opinione pubblica «senza eccessivo accumulo o enfiagione di parole».
Consigli critici arrivano anche da altri amici del premier: da Piero Fassino, sconfitto a Torino, che lo invita a «dare un'anima al riformismo» che incarna perché «non c'è cambiamento senza equità, e bisogna accompagnare la trasformazione e le riforme con un cantiere sociale» che dia risposte alle «paure e inquietudini» dei cittadini.
Un leopoldino della prima ora come Matteo Richetti rimprovera al premier di aver voluto «impostare il referendum come un giudizio sul governo», regalando ai suoi nemici «un terreno che non doveva neppure esistere». E Claudio Velardi avverte: «Le conseguenze di una sconfitta sul referendum le pagheremo tutti: saranno poco piacevoli e di lunga durata. Per questo, eviterei di morire da kamikaze».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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