«Sparati», gli dice con affetto Francesco Storace, ma Gianfranco Fini, la promessa mancata del centrodestra italiano, era politicamente morto da tempo. Ora però per lui si mette molto male pure dal punto di vista giudiziario. Il Gico della Finanza, su ordine della Direzione distrettuale antimafia, gli ha infatti sequestrato due polizze vita per un milione di euro. Il provvedimento nasce nell'ambito dell'inchiesta sulla vendita della ormai famosa casa di Montecarlo, che vede l'ex presidente della Camera e tutti i parenti di sua moglie indagati per vari reati, tra cui il riciclaggio per una serie di affarucci con il re dei videopoker Francesco Corallo. E le cose potrebbero peggiorare: la caccia ai soldi è appena cominciata.
Dunque Fini sapeva. Lui e la sua compagna, scrive il gip Simonetta D'Alessandro, «erano ben a conoscenza» della provenienza di quei soldi e il sequestro trova perciò «fondamento nella centralità progettuale e decisionale» di Fini nella vicenda. E per la Gdf l'operazione di vendita dell'appartamento di Montecarlo, ceduto da Alleanza Nazionale alle società offshore Printemps e Timara, riconducibili a Giancarlo e Elisabetta Tulliani, fu realizzata «alle condizioni concordate con Francesco Corallo ed i Tulliani» e decisa dall'ex ministro degli Esteri «nella piena consapevolezza di tali condizioni».
Fini continua a dirsi estraneo, i suoi legali daranno battaglia e impugneranno l'ordinanza. Vedremo come andrà a finire, però per lo sdoganatore delle destra questa è la pietra tombale alle sue residue ambizioni pubbliche. Il credito politico era già finito da tempo e i seguaci sono evaporati, ma ora è calato il sipario e l'uomo che ha scritto la nuova Costituzione europea insieme a Valery Giscard d'Estaing adesso dovrà firmare carte giudiziarie e procure ai suoi avvocati.
Ed è davvero una brutta fine per l'ex ragazzo bolognese che a sedici anni nel 1968 andò a vedere Berretti verdi e rimase coinvolto negli scontri davanti al cinema con un gruppo di estrema sinistra. Una ventina d'anni dopo, Fini subentrò a Giorgio Almirante alla guida del Msi. Spodestato da Pino Rauti, si riprese il partito nel 1991. Nel 1993 la sconfitta contro Francesco Rutelli al ballottaggio per il Campidoglio fu in realtà la sua rampa di lancio. L'alleanza con Silvio Berlusconi, il passaggio dal Msi ad Alleanza nazionale, la svolta di Fiuggi, il ripudio del fascismo «male assoluto». E l'ingresso nel governo.
Da lì una serie di alti e bassi, dal boom del 15,5 per cento alle elezioni al flop alle Europee corse insieme a Mario Segni. Ma nel 2001 la sua carriera ebbe un'impennata, grazie alla vittoria del centrodestra che riportò il Cavaliere a Palazzo Chigi e proiettò lui sulle poltrone di vicepremier e di ministro degli Esteri. Di quel periodo si ricordano gesti forti e «da statista», come il viaggio in Israele e la deposizione di una corona di fiori su un sacrario della Resistenza. Su e giù anche il rapporto con Berlusconi, più giù che su, fino al 2007, quando Silvio da un predellino annunciò la creazione di una lista unica dei moderati per le politiche del 2008. Nacque il Pdl, a Fini però stava troppo stretto e, da presidente della Camera, iniziò una dura opposizione interna al premier. La rottura definitiva con quel «Che fai? Mi cacci?», gridato durante la direzione nazionale del 2010 che decretò la sua espulsione.
Era l'inizio della fine. Da allora infatti solo scelte sbagliate.
L'uscita dalla coalizione di centrodestra, il varo di Fi, l'alleanza fallimentare con Mario Monti e l'Udc di Casini, che gli fruttò lo scarno 0,4 per cento, i rapporti con la sua nuova famiglia, la cassa di Montecarlo. «Sono stato un coglione, corrotto mai», sostiene. Ora spetterà alla magistratura stabilire se è vero o no.
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