Finito il G20, Riyad riprende le esecuzioni

Il boia aveva lavorato meno durante la presidenza del Paese nel 2020

Finito il G20, Riyad riprende le esecuzioni

Concluso il G20, il boia si è rimesso al lavoro in Arabia Saudita. Il regno ha infatti intensificato le esecuzioni nella prima metà del 2021 dopo un calo durante la sua presidenza del G20 nel 2020. Ha giustiziato almeno 40 persone tra gennaio e luglio 2021, più che durante l'intero anno scorso. Nel 2019 erano salite sul patibolo 185 persone, ma Riad aveva dichiarato di aver ridotto il numero di esecuzioni dell'85% nel 2020 rispetto all'anno precedente, portando il numero per il 2020 a 27.

Il rapporto che getta nuove ombre sul «nuovo corso» avviato dal principe ereditario Mohammed bin Salman, arriva da Amnesty International, la ong britannica in prima linea nella battaglia per l'abolizione della pena capitale. Amnesty ha fatto notare che le esecuzioni sono riprese subito dopo che l'Arabia Saudita ha ceduto la presidenza del Gruppo delle 20 nazioni ricche all'Italia. «La coincidenza indica che qualsiasi illusione di riforma era semplicemente una spinta per migliorare le pubbliche relazioni», ha affermato Lynn Maalouf, vicedirettore per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International. Ma c'è di più. Secondo la ong le esecuzioni hanno avuto luogo a seguito di condanne in «processi gravemente iniqui, viziati da pratiche di tortura durante la detenzione preventiva che hanno portato a confessioni forzate». A giugno Mustafa Darwish, saudita appartenente alla minoranza sciita, è stato giustiziato e ha detto al giudice «di essere stato minacciato, picchiato e torturato per confessare»: «Ho confessato solo perché temevo per la mia vita». Nel documento Amnesty ha anche affermato che c'è stata una maggiore repressione di attivisti per i diritti umani e dissidenti. In molti casi gli imputati sono tenuti in isolamento per mesi e gli è pure negato incontrare gli avvocati. Dopo il carcere molti si aspettano anche di doversi attenere al divieto di viaggio. Ad aprile, infatti, il tribunale penale dell'antiterrorismo dell'Arabia Saudita ha condannato Abdulrahman al-Sadhan a 20 anni di carcere, seguiti da un divieto di viaggio per altri 20, per aver espresso opinioni satiriche sulle politiche del governo su Twitter. Anche l'attivista per i diritti umani Israa al-Ghomgham è stata condannata a otto anni di carcere e ad altri otto anni di divieto di viaggio nel febbraio 2021, per la sua militanza pacifica e per la partecipazione alle proteste antigovernative. Mohammad al-Rabiah, arrestato nel maggio 2018 invece per aver sostenuto una campagna per il diritto delle donne alla guida è stato condannato nell'aprile 2021 a sei anni di carcere, seguiti da un divieto di viaggio di altri sei. Le accuse contro di lui: «Cercare di distruggere la coesione sociale e indebolire l'unità nazionale» e «pubblicare un libro contenente opinioni sospette». Tale divieto è stato imposto anche dopo il suo rilascio alla famosa attivista per i diritti delle donne Loujain al-Hathloul, in prima linea per abolire il divieto di guida per le saudite.

Almeno 39 persone sono dietro le sbarre per il loro lavoro in favore dei diritti umani e per rendere possibile esprimere il dissenso in Arabia Saudita. Ma non finisce qui il calvario.

Tutti i difensori dei diritti umani rilasciati sono costretti a firmare impegni, che spesso includono il divieto di parlare in pubblico, di continuare la loro attività e di usare i social media. Tutte gravi limitazioni del diritto di espressione.

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