Lo chiamavano l'inviato gentiluomo. E come tanti gentiluomini talvolta concedeva fiducia a chi non la meritava. Accade una sera in Vietnam. I suoi colleghi si son trastullati fra la hall dell'albergo e qualche storia di contorno nel caldo limaccioso di Saigon. Lui torna che fuori è già buio. Sui vestiti ha il fango della giungla, sul volto la fatica e l'eccitazione di chi ha trascorso una giornata al fronte. Vorrebbe salutare tutti, salire in stanza, buttarsi a letto. Ma gli altri sono curiosi. «Dai Egisto un whisky e poi sali... non tenerci sulle spine... racconta». Corradi non si può tirare indietro. «Va bene, va bene... tanto stasera non scrivo... sono troppo stanco». Tra un whisky e l'altro in mezz'ora la storia viene fuori, tra gli sguardi un po' ammirati un po' invidiosi del pubblico d'inviati. Poi Egisto saluta, sale in stanza, s'infila nel letto.
La mattina dopo chiama il giornale, racconta la storia al Direttore. E quello per poco non lo insulta. «Ma Corradi quel pezzo è sulla prima pagina del nostro concorrente...». E in effetti è proprio così. Il suo reportage è già uscito scritto e firmato uno degli «amici» del bar. Uno di quelli pronti a far girare i whisky ed altrettanto pronto a infilar la sala della telescrivente non appena Egisto è salito in stanza.
Ma sono vittorie piccine. A Corradi potevano, ogni tanto, strappare una battaglia. Rubargli la guerra, la capacità di afferarne disegno e senso, era assai più difficile. Perché nel narrare i dettagli, nel comprendere l'insieme il maestro è lui. «Sui fatti di guerra, e non soltanto di guerra, a cui aveva partecipato - scrive Indro Montanelli all'indomani della sua morte - Corradi era la Corte di Cassazione». Insomma la massima istanza, il supremo tribunale. «Lo sapevano e lo riconoscevano - certifica Montanelli - tutti i giornalisti di tutto il mondo». È, insomma, quello che osserva, studia, ricerca e, alla fine, capisce prima e meglio di altri. Quando la Cambogia diventa la terra dei «killing fields» e il Vietnam il paese dei «boatpeople» anche i colleghi, sempre pronti ad alzar le ciglia davanti al suo disprezzo per la vulgata dei vietcong liberatori e degli americani invasori, finiscono con il riconoscerglielo. «Gli eventi di questi ultimi anni con l'imperialismo rosso degli eredi di Giap e di Ho Ci Min, dimostrano che Corradi si fece condurre soltanto dalla propria onestà di cronista», scrive su Repubblica Guido Vergani.
Del resto Corradi la guerra la conosce da sempre. La vive sulla propria pelle da giovane tenente dell'Armir perduto nella steppa russa durante la grande ritirata del gennaio 1943. E per vent'anni non la dimentica. Fino a quando nel 1964 quella memoria angosciante, piantata nel cuore e nella mente diventa La ritirata di Russia, scritto per Longanesi. «Camminavamo ora veloci ora lenti, a seconda dell'intensità della tormenta. Io avevo l'impressione di camminare sempre nello stesso luogo, come in un incubo; o di muovere vanamente le gambe sopra un tappeto mobile. Dopo qualche ora la superficie ci apparve rotta da un qualcosa che sembrava un insieme di bassi cespugli. Non erano cespugli, ma una decina di cadaveri. Erano nudi, non si capiva se erano italiani o tedeschi o russi». In quella lotta disperata per la sopravvivenza la figlia Marina leggerà l'inizio dell'inquietudine che spinge Corrado a viaggiare senza freni e senza limiti anche quando la famiglia lo reclama. Anche quando la sua primogenita se ne va a 14 anni portata via da una leucemia spietata. Neppure quel dolore lo ferma. Anzi forse lo allontana ancor di più.
E così nel paradosso della vita il giornalista buono, il gentiluomo ammirato da tutti per la sua modestia e la specchiata correttezza, in casa diventa il marito lontano, il padre invisibile, a tratti insensibile. Il genitore più dedito al lavoro che non alla famiglia. Ma a Marina, la figlia che da lui eredita la professione e la scrittura, regala alla fine il consiglio decisivo. «Vai, guarda e racconta come se scrivessi una lettera al tuo più caro amico. Quando si parla con un amico non si usano verbosità o astrusità». Segreto semplice da raccontare, ma difficile da realizzare. Eppure quella è la ricetta dei suoi grandi reportage. «Il grande urlo si sentì mentre pioveva furiosamente e la bora tirava raffiche violente: volavano manifesti, tricolori, ombrelli. I rumori erano di grida e di bora. Trieste ronzava come una chitarra esposta al vento». Con quell'immagine di pioggia e vento rabbiosi planati su una città in festa Corradi suggella nel novembre 1954 il ritorno di Trieste all'Italia.
Due anni dopo è uno dei pochi giornalisti occidentali a raccontare l'invasione dell'Ungheria piegata dai carri armati sovietici. Poi è una corsa nelle tragedie del Congo, della primavera di Praga, del Vietnam. Ma l'ansia e l'inquietudine della guerra lo accompagnano anche nei corridoi del Corriere della sera dove, nella prima metà degli anni '70, aleggia lo stesso pensiero addomesticato, la stessa atmosfera ideologizzata che inquina i racconti del Vietnam e delle vicende del pianeta. Per questo non tarda un attimo a uscire dal coro, a seguire Montanelli nell'avventura del Giornale. Un'avventura grazie a cui si ritrova, come scopriamo nelle pagine di Le guerre dei mondi, la nuova uscita della serie Firme fuori dal coro, di nuovo a suo agio nel misurare, raccontare e giudicare i grandi avvenimenti del pianeta.
Dalla Mongolia sconosciuta alla Cina del dopo Mao, dal Friuli piegato dal terremoto all'Afghanistan inconsapevole di vivere l'inizio di una guerra lunga, a oggi, 38 anni Egisto Corradi ci descrive il mondo con i suoi occhi di viaggiatore incallito, ma disincantato.E a quasi trent'anni dalla morte continua a regalarci racconti preziosi per comprendere il nostro presente e la nostra storia.
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