"Firmerò i referendum. Per fare la vera riforma serve soluzione choc"

L'ex vicepresidente del Csm di Napolitano: "Solo così si tagliano i nodi della giustizia"

"Firmerò i referendum. Per fare la vera riforma serve soluzione choc"

Avvocato torinese e professore di diritto commerciale, Michele Vietti è stato vicepresidente del Csm tra il 2010 e il 2014, quando al Quirinale e al vertice dell'organo di autogoverno della magistratura c'era Giorgio Napolitano. Anni travagliati, di forti tensioni tra toghe e politica, anni in cui ha dovuto fronteggiare lo scontro tra l'ex premier Silvio Berlusconi e i magistrati di Milano e quello interno alla procura meneghina tra il capo Edmondo Bruti Liberati e l'aggiunto Alfredo Robledo. Vietti è stato in Parlamento per l'Udc nella commissione Giustizia, la prima volta al Csm come semplice «laico», al governo come sottosegretario alla Giustizia nel primo governo Berlusconi e all'Economia nel secondo, prima di approdare al Csm come vicepresidente, oltre ad aver guidato la commissione ministeriale di riforma dell'ordinamento giudiziario con il Guardasigilli Andrea Orlando.

I problemi del mondo giudiziario li conosce bene, servono i referendum?

«Il referendum non è un bisturi per operazioni delicate ma un'accetta con cui si tagliano nodi intricati, ma oggi per le vie parlamentari difficilmente si produrrà qualcosa di utile per la giustizia e ormai il tempo è esaurito. Da due anni monta l'indignazione collettiva per gli scandali, da Palamara ad Amara, ma nulla è stato fatto. La politica si è dimostrata totalmente inetta. Intanto c'è una perdita totale di credibilità dei magistrati, trionfa l'inefficienza del sistema giudiziario, i processi hanno una lunghezza inaudita, l'imprevedibilità del sistema civile allontana gli investitori stranieri e il processo penale è tutto sbilanciato sulle inchieste e la gogna mediatica».

Ma la riforma Cartabia?

«Nella maggioranza ci si accapiglia ancora sulla prescrizione. Le forze che ne fanno parte non troveranno mai un'intesa, perché s'ispirano a principi opposti di politica giudiziaria. La commissione ministeriale guidata da Luciani ha prodotto un testo che da un lato mi onora perché riprende in gran parte le proposte della mia commissione del 2015-16, ma dall'altro non tiene conto che da allora è cambiato il mondo. Dopo quanto è successo in questi anni non si possono riproporre interventi di manutenzione ordinaria. La situazione è di emergenza e bisogna intervenire sulle fondamenta del sistema. Il governo e la sua maggioranza non potranno farlo, ecco perché serve una soluzione choc, quella dei referendum. Cioè l'accetta, per tagliare il nodo gordiano».

Quindi i referendum proposti da Lega e radicali è pronto a firmarli e votarli.

«Sì. Credo sia stata una buona iniziativa chiamare la gente a dare una spinta sui temi della giustizia».

Quali interventi considera prioritari?

«Vedo la necessità di riequilibrare il ruolo del pm che, complice la riforma Vassalli con il rito accusatorio, fa arrivare le parti al dibattimento con una totale sproporzione, perché il pm ha il controllo assoluto dei mezzi di indagine, in particolare delle intercettazioni. Il pm non è più quello che riceve le notizie di reato dalla polizia giudiziaria: lui stesso va a cercarle e la polizia giudiziaria ha con lui un rapporto di subordinazione totale. Nel vecchio sistema il pm aveva un ruolo di terzietà, doveva cercare anche prove a discarico dell'imputato e chiedere il rinvio a giudizio solo se era certo di ottenerlo. Adesso è padrone delle indagini e dell'azione penale, che in nome dell'obbligatorietà esercita con totale discrezionalità. È diventato l'avvocato dell'accusa. E questo anche grazie alla debolezza della politica, che crede di risolvere ogni problema introducendo nuovi reati e consegna così al pm un'ulteriore batteria di munizioni. Non c'è più ragione che il pm stia dentro lo stesso ordine giudiziario del giudice altrimenti questi, che dev'essere assolutamente terzo, finisce per rimanerne schiacciato».

Separazione delle carriere, dunque.

«Sul punto sono un pentito. Per tanti anni ho detto che non vedevo questa urgenza, ma confesso di aver cambiato idea. Oggi questa separazione è inevitabile per riequilibrare le parti del processo».

E sul Csm come si deve intervenire?

«Non ci si può limitare ad una riforma della legge elettorale, peraltro fumosa e addirittura proporre di aumentare il numero dei componenti, come fa la commissione Luciani. Serve una sezione disciplinare esterna o comunque autonoma. Bisogna cambiare la progressione in carriera dei magistrati, oggi quasi tutti valutati positivamente a prescindere e per la nomina dei direttivi non si possono moltiplicare ancora i criteri, fornendo al Tar motivi per annullare. Per le impugnazioni serve un unico grado di giudizio, al Consiglio di Stato. Ma prima di tutto il Csm deve recuperare la propria autorevolezza e il rigore del proprio ruolo».

E il sorteggio?

«A costo di fare il pentito anche su questo, perché ero

scettico, dico di sì. Ma per scegliere la platea dei candidati togati, non gli eletti. Spero che in tutto questo i magistrati mostrino collaborazione, consapevoli che la loro crisi rischia di diventare la crisi della democrazia».

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