Roma - Che cosa ci lascia in eredità l'estenuante balletto politico che ha portato il governo gialloverde a partorire un Def drammatico dal punto di vista macroeconomico e fondamentalmente privo di novità sul fronte fiscale? Nulla se non la vacuità delle promesse dei due contraenti il contratto di governo. Basta ricordare la campagna elettorale 2018 giocata dalla Lega su un cavallo di battaglia particolare: le accise sui carburanti. Matteo Salvini aveva promesso almeno di «farle scendere» abolendo le più vecchie. Anche quest'anno, però, continueranno a pesare con tutto il loro portato di disastri evocati (Vajont, Belice, ecc.) senza diminuire né aumentare, una presenza costante che pesa circa per il 40% sui prezzi applicati al distributore. E l'immobilismo, in questo caso, è anche una notizia positiva perché nelle famigerate clausole di salvaguardia da 23 miliardi sul 2020 una piccola parte è legata all'incremento delle accise (circa 130 milioni per ciascun anno del triennio 2020-2022). Altro che abolizione! «Mi riprometto di portare a casa questo risultato nel 2019», aveva detto il Capitano. Per ora, su proposta M5s, ha portato a casa solo l'ecotassa che, pur non essendo macroscopica (300 milioni circa il gettito atteso), ha scoraggiato l'acquisto di auto.
Un po' più evasivi tanto Salvini quanto Di Maio sono sempre stati sulla tassazione immobiliare. Imu e Tasi sono troppo importanti con i loro 21 miliardi di gettito per le casse comunali per pensare di farne a meno. La Lega nello scorso novembre aveva proposto solo di riordinare l'imposta in pratica accorpando i due tributi, ma anche questa ipotesi fu accantonata perché in politica fiscale vale il principio aristotelico quieta non movere. Un cambiamento infinitesimale può determinare una valanga. È quanto accaduto con la legge di Bilancio che ha eliminato il blocco dell'aumento delle aliquote delle amministrazioni locali, istituito dal 2015. Secondo una recente inchiesta del Sole 24 Ore, l'Imu è aumentata in quasi una città su dieci (9,4%), l'addizionale Irpef è stata ritoccata all'insù nel 7,3% dei casi, mentre più spesso sono stati incrementati i tributi minori come tassa di soggiorno, Tosap e imposta di pubblicità. Detto tra noi, con reddito di cittadinanza e quota 100 da finanziare senza scaricare tutto sul deficit non poteva essere altrimenti.
Ormai sono quasi dieci mesi che Matteo Salvini afferma che «le tasse caleranno», ma di certo c'è solo un dato: le cifre dell'ufficio parlamentare di Bilancio secondo il quale quest'anno la pressione fiscale salirà al 42,4% del Pil dal 42% del 2018. La manovra è «recessiva ed è soggetta a un rischio di deviazione significativa rispetto alle regole europee», aveva dichiarato il presidente dell'Upb Pisauro e si è inserita in un quadro profondamente recessivo. E, oggi si può dire, aggravandolo, altrimenti non si sarebbe materializzato il vuoto del Def.
È come se l'ottimismo iniziale fosse svanito in una bolla di sapone. Come i Bot e Btp che il sottosegretario alle infrastrutture e consigliere sulle politiche fiscali della lega, Armando Siri, voleva far sottoscrivere alle famiglie per finanziare la manovra.
«Bisogna far in modo che le famiglie italiane, che hanno 5mila miliardi di liquidità, tornino a riprendersi quella parte del debito, pari a 780 miliardi, collocata presso investitori stranieri, che sono quelli che fanno girare la giostra dello spread», aveva dichiarato al Corriere. S'è visto com'è finita.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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