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Foggia, blitz anti-caporalato: moglie del prefetto indagata "Sapeva dello sfruttamento"

Rosalba Bisceglia è accusata di aver usato la manodopera. Si dimette il marito, capo del settore Immigrati del Viminale

Foggia, blitz anti-caporalato: moglie del prefetto indagata "Sapeva dello sfruttamento"

Trattati come schiavi, piegati a raccogliere pomodori nei campi anche 13 ore al giorno per pochi spicci e costretti a vivere in condizioni precarie nella baraccopoli di Borgo Mezzanone, a Manfredonia. Vittime dei caporali e di imprenditori senza scrupoli. Tra questi, secondo la Procura di Foggia, anche la moglie del prefetto e capo del Dipartimento per l'immigrazione del ministero dell'Interno, Michele di Bari, che si è subito dimesso. Un blitz scattato lo stesso giorno in cui Papa Francesco si è scagliato contro il caporalato.

Rosalba Bisceglia, indagata con obbligo di firma e di dimora in quanto socia e amministratrice di una delle aziende coinvolte, è accusata di aver utilizzato manodopera procurata dai caporali. Per i pm era «consapevole delle modalità di reclutamento» e delle «condizioni di sfruttamento» a cui venivano sottoposti i braccianti approfittando del «loro stato di bisogno». Con lei sono finiti nei guai i titolari di altre nove imprese, con un volume di affari complessivo di 5 milioni di euro l'anno. Sottoposti a misura cautelare in carcere Kalifa Bayo, senegalese di 32 anni, e Saidy Bakary, gambiano di 33 anni, considerati i mediatori tra le aziende e gli immigrati. Per tre persone il gip ha disposto gli arresti domiciliari, altre 11 sono indagate. Le accuse sono di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Le indagini, partite dalla situazione di radicata illegalità nelle campagne del foggiano e condotte da luglio a ottobre 2020, hanno portato alla luce un sistema di reclutamento della manodopera: le aziende cercavano forza lavoro e i due extracomunitari si attivavano per cercare i braccianti nella baraccopoli. Provvedevano anche al loro trasporto presso i terreni e a sorvegliarli durante il lavoro. Compiti per i quali pretendevano da ognuno 5 euro per il passaggio e altri 5 per l'attività di intermediazione. In cambio di un salario da fame, come risulta da un'intercettazione tra un caporale e un lavoratore. La paga? «Trentacinque euro al giorno per 6 ore». «Palesemente difforme - scrive il gip - alle tabelle del contratto collettivo nazionale che prevede una somma netta di euro 50.05 per 6.30 ore di lavoro». Il gambiano si occupava anche di dare specifiche direttive ai braccianti sulle modalità di comportamento in caso di ispezione da parte dei carabinieri. Un apparato «quasi perfetto», per i magistrati, che andava dal reclutamento al sistema di pagamento, con buste paga non veritiere, che indicavano un numero di giornate lavorative inferiori a quelle prestate, senza riposi e ferie.

La Procura ritiene che la moglie del dirigente del Viminale non potesse non conoscere il modus operandi del gambiano al quale si era rivolta per trovare i lavoratori. Lo avrebbe fatto per oltre un mese: comunicava il numero degli extracomunitari che le servivano e li assumeva grazie ai documenti forniti dallo stesso caporale. «Porta i documenti e il giorno dopo lavorate», dice in un'intercettazione. Solo dopo i controlli avrebbe mostrato «preoccupazione e attenzione per la regolarità dell'impiego della manodopera».

Il suo legale, Gianluca Ursitti, è certo che sarà tutto spiegato: «I fatti, peraltro circoscritti nel tempo e nella consistenza, saranno al più presto chiariti nelle sedi competenti».

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